di Giovanni Iozzoli
Sembra passato un secolo, vero? I virologi onnipresenti a reti unificate. I grafici con l’andamento della mortalità. Le mascherine, gli elicotteri in spiaggia e i droni sui tetti dei palazzi. Il divieto di uscire di casa, ma l’obbligo sostanziale di andare a lavorare. Un tizio con aria solenne che si affaccia sulle reti tv e fa un elenco di cosa “è consentito”. Un paio d’anni di follia, ma anche di ardite sperimentazioni sociali e inedite tecniche di governance. In quella stagione Milano conobbe il più alto numero di manifestazioni consecutive, mai viste dopo il ’77. Quasi in tutta Italia si coagularono aggregati sociali (e social) nel cui caos poteva nuotare di tutto: nazisti e anarchici, fautori della Costituzione e complottisti estremi. Tutti uniti non da una visione comune – sui vaccini o sul mondo – ma da una diffidenza ostile e irredimibile verso “il potere” o una qualche sua rappresentazione immaginaria.
L’unica cosa che teneva davvero insieme quei mondi, era lo stigma – potentissimo e unanime – che veniva riversato su di essi dai media mainstream e dalle forze politiche. Come se una parte del paese fosse stata dichiarata fuori dal consesso civile. Non c’era programmino tv, dalla satira ai tg e perfino le trasmissioni sportive, in cui quelle persone non venissero impunemente insultate da giornalisti, esperti, soubrette e sottosegretari: terrapiattisti era l’epiteto più gentile. Chi di noi non aveva un parente o un collega o un vicino di casa “renitente” al vaccino o semplicemente ostile al green pass? Questa normale condizione critica venne trasformata in ostracismo civile. La massa informe e anonima dei renitenti non aveva diritto di replica. Solo con i “putiniani” si sarebbe riprodotto lo stesso scenario di conformismo di regime: chi non si fida, chi mostra dubbi, chi è riottoso – in quel caso rispetto alle politiche Nato – va bastonato e censurato. Perché la post-modernità (o quel che diavolo siamo) si fonda essenzialmente sulla fede, proprio come il Medioevo. Cambiano solo gli idoli e i profeti.
Che tutto quel travaglio sociale che spaccò le opinioni pubbliche occidentali, potesse semplicemente dissolversi senza lasciare tracce, era una pia illusione. Tornare alle coordinate socio-politiche “pre covid” senza scossoni o rotture, era impensabile. Le contraddizioni di quella stagione hanno continuato a marciare sotto traccia, lente e profonde, insieme a molte altre preesistenti, costituendo una enorme faglia sismica attiva in attesa di esplodere. E la vittoria di Trump è stata anche – non solo, ovviamente – il segno che quelle isole livorose di opposizione “antisistemica” (così amano definirsi, pur non avendo alcuna lettura comune di cosa sia il sistema), non solo non si erano eclissate ma stavano assumendo una egemonia silenziosa dentro il corpo sociale.
La nomina di Robert Kennedy al ministero della salute, è una nemesi potente: non solo perché durante la stagione del Covid si è posto come punto di riferimento globale dei movimenti no vax, ma anche perché il cognome che porta, collocato in questo dato contesto storico, rappresenta il sostanziale rovesciamento del sogno americano. Se la memoria della prima generazione Kennedy evocava la “nuova frontiera”, la spaziosità in cui viaggia l’eterno enterprise americano, l’omonimo nipote prefigura invece la chiusura un pò paranoide di ogni illusione, la presa d’atto che il “secolo americano” è definitivamente esaurito – altro che again great… Quel cognome, al di là dell’affiliazione democratica o repubblicana, reca in sé un tale potenziale evocativo, un tale volume di suggestioni, che un Kennedy ministro non può essere considerato un mero incidente della storia.
Tra l’altro, una delle farneticazioni profetiche della rete Qanon, riguardava proprio un altro Kennedy – John jr, il figlio del presidente JFK – che non sarebbe mai morto nel 1999 nelle fredde acque dell’Atlantico, ma avrebbe scelto di entrare in uno stato – quasi mistico – di occultamento, pronto a ricomparire per rovesciare il Deep State e la “Cabala” magico-satanica che governa gli States. Curiosamente è il tema centrale dell’arci nemico sciita: l’Imam nascosto in attesa di irrompere nella storia e spezzare la trama anticristica. Il Mito americano per eccellenza, incarnato dal clan Kennedy, subisce una torsione e un adattamento paradossale. E la nomina governativa di Robert darà qualche conforto ai seguaci delle profezie complottiste: un Kennedy è arrivato effettivamente al potere, al fianco di Trump, e sfiderà niente meno che Big Pharma.
Naturalmente è una ingenuità imperdonabile, pensare che un leader politico americano possa osare tanto. Semplicemente non sarebbe lì, se avesse serie velleità di contrastare i giganti del settore. Molto probabilmente il nuovo potere esecutivo e i giganti dell’industria farmaceutica rinverdiranno il loro patto affaristico, magari sul terreno delle assicurazioni sanitarie (meno monoteismo vaccinale, in cambio di un rilancio della centralità delle assicurazioni private). Dietro alla campagna elettorale di Trump c’è un pezzo importante del capitalismo americano – e dopo la vittoria, tutto il resto si accoderà.
Tra il 2021 e il 2022 le manifestazioni di dissenso durante la crisi pandemica, nel mondo e in Italia, avevano toccato il loro apice. Coinvolgevano settori importanti di opinione pubblica, anche se solo una frazione di questi mondi si esponeva pubblicamente nelle piazze. L’assenza di forze solide organizzate, di intellettuali di rilievo e soprattutto di un filo di ragionamento comune, dava a queste armate la parvenza di un esercito sbrindellato, aperto a ogni infiltrazione, rabbioso e incoerente. La crociata dei pezzenti, per citare il primo velleitario tentativo di assalto occidentale in Terra Santa. Ora, passati tre anni da quel ciclo, possiamo dire che i crociati pauperes hanno finalmente trovato il loro Sovrano, affiancato tra l’altro da un tecno-Rasputin miliardario. Quei settori di opinione pubblica vilipesi e oltraggiati dal “razionalismo” progressista, sono in qualche modo giunti al potere: e nella maniera più conclamata possibile.
Certo, proprio come avvenne nel 1096, dopo l’agitazione sconclusionata “dal basso”, stanno arrivando i Principes, quelli che condurranno la vera Crociata, quella in cui si decide l’egemonia americana contro il mondo “non bianco”. Siamo dentro un enorme riassetto dei poteri negli Usa e su scala globale, ma non a rovesciamenti o svolte epocali. L’arrivo di Trump tenderà più alla continuità che alla rottura: la presidenza degli Stati Uniti è sempre la risultante di un riequilibrio dinamico dei centri istituzionali, amministrativi e finanziari. Tale dinamismo funziona anche quando ammazzano i presidenti: e si metterà in moto pure dentro la terribile crisi di egemonia che le classi dirigenti americane stanno attraversando – e che genera appunto fenomeni di degenerazione come il Trumpismo.
Del resto chi crede che Trump abbia il potere di decidere le svolte della storia, coltiva una lettura puerile del sistema mondo. Il presidente degli Stati Uniti non è mai stato una specie di “sovrano universale”, che appicca o spegne le guerre seduto nello Studio Ovale, come un Demiurgo assiso fra le stelle. Non ha mai funzionato così… Gli Usa hanno più o meno perso tutte le guerre che hanno combattuto dal ’45 ad oggi – se si eccettua il vile bombardamento della Serbia. E se questo valeva prima, figuriamoci nel mondo odierno, già multipolare. Altrimenti si cade nel delirio qannonista e si imputano alla Presidenza americana poteri magico-taumaturgici che non ha mai avuto.
Man mano che si rivela la squadra di governo di Trump, viene fuori il campionario di “freaks” di cui Donald ama circondarsi. Sono figure tra l’orrido e il disgustoso. E l’indignazione delle nostre Lilligruber sollecita anche riflessioni più profonde: si tira fuori il Luckas che vede l’irrazionalismo come filosofia della fase decadente dell’imperialismo. E il fatto che l’arcipelago complottista sia arrivato alla Casa Bianca potrebbe autorizzare questa lettura. Non si capisce però quale sarebbe la parte “razionalista” che si contrappone ai mostri trumpiani. Il vecchio Biden che mentre va in pensione ci accompagna giulivo verso la terza guerra mondiale? Oppure Obama che prima si prende il Nobel per la Pace e poi innesca la distruzione della Libia e della Siria? O i sostenitori in servizio permanente, di ogni golpe o rivoluzione colorata dalla Georgia alla Moldavia, oggi più operosi che mai: sarebbero costoro gli eredi del “progetto illuminista”? E la filosofia Woke non è una mitopoiesi che serve a contrastare e distinguersi dalle ideologie dei mondi “autocratici”, in mancanza di visioni sistemiche davvero alternative su cui costruire competizioni, come fu durante la guerra fredda? Diciamo che “l’irrazionalismo” è la cifra filosofica del presente: le due fazioni – che si dividono e si giustappongono confusamente su transizione green, globalismo e protezionismo – per noi pari sono, anche se per il momento la cordata più grezza e impresentabile, riesce a prevalere nell’immaginario collettivo dell’Occidente in decadenza. Ciò che accomuna i due fronti resta la sacra centralità dell’impresa e la corsa demente e autodistruttiva verso il profitto.
Piuttosto rivolgiamo a noi stessi una domanda autocritica: quali osservatori abbiamo messo in campo, nell’ultimo decennio, per decifrare e individuare le correnti sociali profonde che attraversano il corpo sociale? Quali capacità di lettura abbiamo oggi, di questi movimenti tellurici che nel nostro paese sono cominciati con i forconi del 2012, e che compaiono carsicamente determinando svolte elettorali e priorità dell’agenda pubblica? Perché stiamo parlando di un fenomeno massiccio ed epocale: la crisi dei ceti medi, cioè del bastione della stabilità capitalistica costituitosi durante i “Trenta gloriosi”. Il baricentro di ogni blocco sociale di consenso. Li ricordiamo i “mercatari” della periferia torinese e gli autotrasportatori siciliani nel 2012? E il ciclo dei Gilets Jaunes francesi – che tra l’altro dimostrò che una seria contesa politica può sottrarre questi mondi all’egemonia delle destre? La scomposizione di classi, ceti, territori, come la intercettiamo, dall’alto e dal basso, nella povertà dei nostri strumenti d’intervento attuali? Melanchon e Sara Wegenknecht stanno provando empiricamente, sul campo, degli esperimenti politici non solo elettoralistici e non socialmente irrilevanti. Si può sbagliare, certo, ma agire significa in ogni caso raccogliere segnali di ritorno dalla società. E capire qualcosa di più di questo ginepraio.
È importante che anche in Italia si inizi a costruire le forme e il metodo di un nuovo agire politico: classista ma autenticamente popolare, in quanto non settario o elitario. Il progetto anticapitalistico riparte da qui, non dai busti in gesso di Lenin recuperati nei mercatini dell’usato. La decantazione dei ceti medi sarà rapida e deflagrante. Quando le destre riescono a navigare su quelle onde, possono esercitare egemonia sui “nostri” mondi, come l’onda trumpiana lascia ben vedere. Il corto circuito nei prossimi mesi sarà terribile, tra le ansie della piccola borghesia in caduta libera e la rabbia dei tanti quartieri Corvetto che si sono costituiti negli ultimi vent’anni dentro le nostre metropoli. Che ruolo giocheremo, in questi tempi pericolosi e gravidi di futuro?
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