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12/12/2024

Ambientalismo addio, il business viene sempre prima

Era prevedibile, per chi ha imparato qualcosina sul capitalismo occidentale. Ma il drastico voltafaccia dell’Unione Europea sulla necessità di far sviluppare – tra le altre cose – un’industria automobilistica “green” dovrebbe far pensare anche gli aficionados della “conciliazione tra capitale e ambiente”.

Ricordate i seriosi leader europei, con Mario Draghi in testa, che accoglievano benevoli Greta Thurnberg a qualche loro consesso dedicato alla “transizione energetica” o alla “difesa ell’ambiente”? Tutto dimenticato, lasciamo perdere, l’ambientalismo è solo “una moda ideologica”.

Non ci possiamo permettere di perdere altri pezzi dell’industria privata europea, che non ha investito nulla – negli scorsi anni – per dare seguito concreto alle normative UE (spesso cervellotiche e scritte malissimo), ritrovandosi così in clamoroso ritardo tecnologico rispetto alla Cina. Ovvero a un paese – e non solo quello – che fino a qualche anno fa veniva incensato come manifattura del mondo solo perché garantiva salari molto più bassi rispetto a quelli occidentali.

Non è più così. I salari cinesi sono ormai molto vicini a quelli di casa nostra (in media 1.355 dollari al mese), ma i prezzi molto più bassi garantiscono un potere d’acquisto superiore. In più, da quelle parti la “svolta green” l’hanno già fatta, sviluppando tecnologie avanzate e sfruttando al meglio la ricchezza di materie prime necessarie allo scopo.

Come hanno fatto? Mettendo al centro l’interesse generale della popolazione, abbattendo le emissioni (“a Pechino il cielo è tornato blu”, dicono i turisti occidentali...), inchiodando le imprese private a rispettare la pianificazione pubblica (si possono fare profitti anche in questo modo) e a raggiungere obiettivi condivisi.

Ieri, invece, Stéphane Séjourné, 39 anni, neo-commissario europeo alla ‘Prosperità e alla Strategia industriale’ – due cose che l’Europa ha smarrito da decenni – ha assicurato che l’Unione Europea farà marcia indietro su tutto, a cominciare dal divieto di immatricolazione delle automobili diesel o benzina dal 2035 in poi.

È quello che chiedevano urlando i costruttori continentali, ma naturalmente si parla di auto solo perché è il tema che tutti possono capire. Riguarda ogni cittadino-lavoratore (il dover cambiare auto, ai prezzi attuali e con i salari fermi o in calo, è diventato quasi impossibile), registra il crollo dei pilastri industriali tedeschi (Volkswagen, Mercedes, Bmw) e franco-italiani (Stellantis).

«Dobbiamo essere pragmatici. La presidente von der Leyen avrà un dialogo strategico con i produttori e l’intera filiera, compresi i subappaltatori, nelle prossime settimane per mettere sul tavolo le difficoltà legate alla transizione. Sono pronto a iniziare a lavorare sulla clausola di revisione nel 2025 in modo da essere pronti nel 2026, perché se iniziamo nel 2026, saremo pronti nel 2027. Quindi iniziamo a esaminare i problemi, come farà la presidente».

Discorso contorto, il cui punto chiave è la “clausola di revisione” di quanto già deciso. E che non riguarderà solo l’auto ma anche la chimica («La chimica è l’industria delle industrie con 1,2 milioni di posti di lavoro in Europa. Nei prossimi cinque anni mi occuperò in modo specifico dei settori che sono in fase di transizione e che sosterremo, sia perché sono in difficoltà, sia perché rappresentano un interesse strategico: l’obiettivo è riportare la produzione in Europa e ridurre la dipendenza dalla Cina per un certo numero di materie prime, che si tratti di scarti di produzione o di materie prime critiche. Nei prossimi mesi definiremo i settori strategici, tra cui c’è la chimica e riformeremo il Reach, il testo che regola i settori chimici. È una questione di competitività ma anche di salute pubblica. I tempi di autorizzazione e restrizione sono troppo lunghi»), l’acciaio... Tutto, insomma.

Si deve “competere” con Cina e Usa, come previsto nel “Rapporto Draghi” – il vero “programma” della nuova Commissione Europea – e lo si farà alla vecchia maniera: industrie inquinanti, salari bassi e dazi sulle merci extra-europee simili a quelle prodotte qui. E poi tante armi, che possono servire... In pratica resteranno “frontiere aperte” solo per le materie prime, di cui l’Europa è notoriamente in deficit.

Per non dare l’impressione della svolta a 180 gradi Sejournè ha fatto il democristiano: “I target delle emissioni inquinanti restano quelli stabiliti, ma le multe per le industrie (e i prodotti) che non li rispettano diventeranno impalpabili”, così da garantire la loro “competitività”. Un limite senza sanzioni non è più un limite, basti pensare a quello di velocità...

È certo, diciamo subito, che le auto elettriche inquinano quanto quelle a combustione interna (nel complesso del ciclo produttivo: dall’estrazione dei minerali al prodotto finale). Ed è certo anche che la crisi industriale che si è appena aperta comporterà decine o centinaia di migliaia di licenziamenti. Che vanno ovviamente evitati.

Ma il problema centrale è questo: se “l’Europa” affronta questa crisi mettendo al centro la vista cortissima ed egoistica di imprese che hanno smesso di innovare, nella speranza di rimettere in piedi quel “modello mercantilista export oriented” che sta tirando le cuoia, e fregandosene dunque di tutte le implicazioni “sistemiche” (dall’ambiente alla vita delle popolazioni), fallirà in modo disastroso tutti gli obiettivi.

E sappiamo bene che “le imprese”, ormai da decenni, preferiscono l’investimento finanziario a quello industriale.

Finché non esplode anche quella “bolla”, certo...

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