Continuano le proteste in Georgia, e in particolare nella capitale Tbilisi, nel mezzo della profonda crisi nata dal non riconoscimento dei risultati elettorali di fine ottobre. Otto città sono state paralizzate dai manifestanti ed è stata bloccata la strada di acceso al porto di Poti, uno dei più importanti snodi del Mar Nero.
Negli scorsi giorni il ministro della Sanità Mikheil Sarjveladze ha reso noto che ci sono stati 37 feriti portati in ospedale, a cui si aggiungono 200 arrestati. Decine di diplomatici georgiani si sono dimessi in segno di protesta, tentando di allargare a livello internazionale l’eco delle proteste.
Sono continuati gli scontri di fronte al Parlamento, con barricate e lanci di molotov. Durante le manifestazioni è stato arrestato Zurab Japaridze, uno dei leader del partito di opposizione “Coalizione per il cambiamento”, l’ombrello sotto cui si sono riunite le sigle che contrastano il governo del partito Sogno Georgiano.
Sui media occidentali si continua a ricordare come secondo un sondaggio della fine dello scorso anno, condotto da un’organizzazione non governativa statunitense, l’International Republican Institute (IRI), l’80% dei georgiani vorrebbe entrare nella UE. E perciò sembrano delineare uno scenario in cui l’intero paese è tenuto in ostaggio dall’esecutivo.
Ma oltre al fatto che il sondaggio è abbastanza datato e che le elezioni hanno visto come elemento centrale proprio il posizionamento geopolitico – sembra difficile, dunque, che oltre la metà dei votanti abbiano scelto l’opzione definita alle nostre latitudini come “filo-russa” – l’IRI è finanziato dal governo di Washington: non propriamente un attore neutrale.
Comunque, va riscontrato che molti universitari sono scesi in piazza, mentre la presidente uscente Salomé Zourabichvili ha chiesto anche agli studenti delle scuole di affiancare e solidarizzare con le proteste. Intanto, ha anche affermato che non lascerà il suo incarico perché “le elezioni sono rubate. Non sono riconosciute da nessuno, ci confrontiamo con un regime che viola la legge costituzionale”.
Il 14 dicembre sarà eletto dal Parlamento appena insediatosi il nuovo Presidente, che entrerà in carica il 29 dicembre. Alla volontà espressa dalla Zourabichvili di non dimettersi fino a nuove elezioni, il primo ministro Irakli Kobakhidze ha risposto mettendola in guardia dall’operare una tale rottura del sistema istituzionale del paese.
Del resto, nonostante le pressioni e tensioni riscontrate, è stata la stessa OCSE alla fine a riconoscere l’assenza di truffe su larga scala, mentre Zourabichvili si era già rifiutata di essere interrogata per mostrare prove dei brogli. Ora, anche la Corte Costituzionale ha respinto i ricorsi, e si cominciano a notare perciò i sintomi di una certa deriva verso una soluzione oltre il recinto della legalità.
Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, ha dichiarato: “abbiamo visto eventi simili in diversi Paesi. Il più diretto parallelo che si può tracciare è con gli eventi di Maidan in Ucraina”. Lo stesso Kobakhidze ha parlato di “ucrainizzazione” della Georgia, e ha ribadito che Tbilisi non farà la stessa fine di Kiev.
Il ministro degli Esteri ucraino ha invece affermato che “il governo georgiano dovrebbe smettere di intimidire il suo popolo con il mito del cosiddetto ‘scenario ucraino’ e contemporaneamente implementare nella pratica uno scenario bielorusso”. A suo avviso, la sospensione dell’adesione al percorso di ingresso nella UE presentata come temporanea è assimilabile a quello che fece il governo di Kiev nel 2013.
Kaja Kallas, Alto rappresentante UE per gli Affari Esteri, ha parlato della possibile introduzione di sanzioni o di un inasprimento del regime dei visti. Intanto, hanno fatto da avanguardia i paesi baltici, che hanno deciso di sanzionare 11 funzionari georgiani, tra cui il ministro dell’Interno di Tbilisi.
Il dossier georgiano sarà sul tavolo dei ministri degli Esteri UE il prossimo 16 dicembre. Zourabichvili ha chiesto che Bruxelles “passi dalle parole ai fatti”, e che quindi si inasprisca la situazione, che sembra avvicinarsi sempre più a un punto di rottura. Bisognerà capire se questi “fatti” saranno davvero anche un’altra Euromaidan.
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