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12/03/2025

Scoppia la “bolla”, l’incertezza regna

Attesa, temuta,esorcizzata, la “correzione” nei mercati azionari è finalmente arrivata. Pare.

Le borse di tutto il mondo, ieri, hanno registrato pesanti ribassi, ma niente in confronto ai titoli dei “Magnifici Sette” di Wall Street: Tesla ha perso il 15% (la peggiore giornata dal 2020, scendendo di oltre il 50% rispetto a dicembre), mentre Morgan Stanley e Goldman Sachs sono cadute rispettivamente del 6,4% e del 5%, nVidia è scesa del 5,1%, Meta (Facebook) del 4,4%.

Il colpevole è stato immediatamente identificato in Donald Trump, che con le sue dichiarazioni avventate, a mercati aperti, non ha escluso che l’inflazione possa aumentare e che una recessione possa verificarsi in tempi brevi come effetto delle sue scelte in campo macroeconomico (ha aperto la guerra dei dazi con tutto il resto del Mondo).

Naturalmente ha anche “previsto” che queste due sciagure saranno in ogni caso “temporanee”, ma che subito dopo “gli americani torneranno a guadagnare così tanti soldi da non sapere come spenderli”.

Trombonate a parte, tutti i più seri analisti sanno – e dicono, magari a mezza voce – che in realtà Trump e la sua scombiccherata amministrazione sono soltanto lo spillo che sta bucando la bolla speculativa cresciuta negli anni a ridosso dei settori hi tech (piattaforme e intelligenza artificiale). La quale fin qui ha nascosto la voragine aperta sotto i piedi della superpotenza Usa: il doppio debito (pubblico e privato) e il doppio deficit (commerciale e statale).

Neanche il “privilegio spropositato” che garantiva il dollaro può più coprire la realtà di un paese indebitato, squilibrato, deindustrializzato, diseguale al proprio interno quanto lo è sul piano globale, affaticato e anche militarmente molto meno efficiente.

Chiunque avesse vinto le elezioni presidenziali, insomma, avrebbe dovuto tagliare pesantemente la spesa pubblica (con forse qualche differenza sulle voci di spesa da sacrificare), tirare giù la saracinesca sulla guerra in Ucraina, ridurre la propria presenza militare in Europa (prima come spesa, poi anche come uomini e basi), per concentrarsi sul Pacifico, dove la Cina è ormai prima potenza e cresce il ruolo dell’India (tre miliardi di persone, insieme).

Lo “stile Trump” è però perfetto per rompere gli schemi consolidati e apparire perciò “rivoluzionario”, presentare in forma di ultimatum quel che prima sarebbe stato intimato nel chiuso di una stanza, e farne anche il parafulmine di tutto quello che non va, quando non va.

C’è da dire che le botte subite dai “Magnifici sette” in borsa sono lo specchio preciso del blocco sociale che supporta Trump. Capitale d’assalto delle piattaforme social, dell’auto elettrica e dell’aerospaziale, finanza creativa... tutti settori ad altissimo tasso di profitto, che hanno garantito agli “azionisti” ritorni favolosi e il dominio del mercato.

E alla fine hanno garantito anche il controllo pieno della politica Usa, conquistando lo Stato con l’intenzione dichiarata di stravolgerne le strutture portanti. Il DoGE (nuovo “ministero” per l’efficientamento dell’amministrazione pubblica, affidato proprio ad Elon Musk) rappresenta forse la principale chiave di volta del “nuovo corso”, insieme naturalmente al pesante ridimensionamento della spesa militare e dello stesso “complesso militare-industriale”.

Ma anche tagliare la spesa pubblica richiede qualche competenza che evidentemente manca tra gli ipertecnologici delle piattaforme, più avvezzi alla logica degli algoritmi che non a quella del mondo fisico.

Un esempio a suo modo clamoroso è il previsto, drastico, taglio alla ricerca scientifica, definita “inefficiente” perché il 99% circa dei programmi di ricerca finanziati non produce i risultati sperati. Anche il meno dotato dei ricercatori potrebbe però spiegare che la ricerca scientifica avviene “per prove ed errori”, visto che non si sa mai prima se l’ipotesi da cui parte una ricerca è giusta oppure no.

Ma anche dai “fallimenti” si impara quanto serve per affinare le successive ricerche, aggiustando il tiro, e arrivare infine a quei “successi” che cambiano la vita dell’umanità.

Ovvio che un simile “spreco” faccia orrore ad un amministratore delegato, per il quale ogni spesa è un investimento che “deve” produrre entrate maggiori.

Ma governare un paese è tutt’altra cosa rispetto a dirigere un’azienda. Le variabili di cui tenere conto sono infinitamente di più, ma soprattutto non si possono “sopprimere” componenti senza le quali un paese semplicemente collassa.

Persino il “fare la guardia” a un edificio può essere considerato un “lavoro inutile”, uno stipendio da tagliare, sostituibile con sensori e telecamere. Ma se quell’edificio contiene elementi vitali per il funzionamento dell’insieme (per esempio la stessa Casa Bianca), non è proprio possibile affidare la protezione alle sole tecnologie.

Nel caso anche remoto di un attacco, insomma, ci devono essere uomini e mezzi pronti per farvi fronte. E che magari per decine di anni vengono stipendiati, formati, ecc. senza che facciano assolutamente nulla di “produttivo di valore”.

In questo senso “i mercati” reagiscono come se stessero solo ora intuendo che la nuova America trumpiana agisce – paradossalmente – come i singoli “investitori dominanti” sognavano. Ma che questo “nuovo fare” non corrisponde a quello che serve all’insieme degli investitori.

I dazi, dicono in molti, possono favorire un po’ il paese che li impone per primo, specie se grande e forte. Ma “i mercati” fanno affari a livello mondiale, e la turbolenza che l’azione unilaterale crea – specie se questa azione è fatta da un soggetto “pesante” – mette in crisi radicale la condizione principale del business: la prevedibilità razionale delle aspettative.

Benvenuti nell’era dell’incertezza, tra bolle e guerre che esplodono in successione.

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