Un altro articolo di Maurizio Lazzarato, in appendice ad «Armarsi per salvare il capitalismo finanziario!», pubblicato settimana scorsa.
L'autore analizza la natura politica dei dazi di Trump, tentativo di porre rimedio al fallimento economico a cui stanno andando incontro gli Stati Uniti. Così facendo, s'approfondisce lo scontro tra oligarchie: da un lato le «velleità» industriali del tycoon, dall'altro la finanza dei fondi d'investimento. Oligarchie che però trovano una via comune nella guerra alla Cina, vista come prossimo paese da saccheggiare e distruggere. Ma il paese asiatico non starà fermo a guardare, accettando supinamente le mosse americane.
Nel frattempo, si approfondiscono le faglie interne negli States. Lazzarato ci dice che le forze espresse negli Usa nelle manifestazioni del 5 aprile contro le politiche di Trump, sembrano le uniche capaci di scongiurare l’esito catastrofico che seguirà al probabile fallimento dell’Occidente. La mossa d’azzardo del capitalismo potrebbe aprire un inedito fronte di classe negli Usa, facendo saltare il patto razziale.
L'autore analizza la natura politica dei dazi di Trump, tentativo di porre rimedio al fallimento economico a cui stanno andando incontro gli Stati Uniti. Così facendo, s'approfondisce lo scontro tra oligarchie: da un lato le «velleità» industriali del tycoon, dall'altro la finanza dei fondi d'investimento. Oligarchie che però trovano una via comune nella guerra alla Cina, vista come prossimo paese da saccheggiare e distruggere. Ma il paese asiatico non starà fermo a guardare, accettando supinamente le mosse americane.
Nel frattempo, si approfondiscono le faglie interne negli States. Lazzarato ci dice che le forze espresse negli Usa nelle manifestazioni del 5 aprile contro le politiche di Trump, sembrano le uniche capaci di scongiurare l’esito catastrofico che seguirà al probabile fallimento dell’Occidente. La mossa d’azzardo del capitalismo potrebbe aprire un inedito fronte di classe negli Usa, facendo saltare il patto razziale.
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La «guerra» alla Cina accomuna le strategie della varie amministrazioni statunitensi che si sono succedute. Il paese asiatico, almeno a partire da Obama, è considerato il nemico assoluto del «mondo libero e democratico». L’Occidente dell’uomo bianco, dopo la sconfitta strategica subita dalla Russia, continua il suo violento declino dichiarando la guerra «commerciale» alla Cina, ai BRICS e al sud globale. Le barriere doganali introdotte da Trump colpiranno non solo i paesi a cui sono imposte, ma forse, in modo ancora più radicale, gli Usa stessi. Sono una vera e propria mossa d’azzardo. Se Trump fallisce accelera notevolmente i tempi del declino e potrebbe condurre:
- all'indebolimento del dollaro come moneta internazionale e quindi al venir meno del «privilegio esorbitante» di comprare merci in cambio di carta straccia (la più importante produzione «industriale» Usa è stata semplicemente, per decenni, stampare dollari);
- alla messa in discussione della finanziarizzazione che aveva garantito l’egemonia degli Usa e dell’Occidente;
- all’ulteriore sfilacciarsi della globalizzazione fondata sul dollaro e sulla finanza a comando Usa, con una spaccatura politica ancora accentuata con i Brics e il sud del mondo;
- al possibile «crollo» di questo tipo di capitalismo, costruito su una gigantesca accumulazione finanziaria speculativa, sganciata dalla produzione reale di ricchezza e basata sull'impoverimento generale e sull’indebitamento infinito.
Non vorrei essere frainteso: l’«evento» Trump ha creato dei possibili che prima semplicemente non esistevano, aprendo un tempo carico di kairos, di occasioni da cogliere. Intervenire su questi possibili (il «crollo» di questo capitalismo, della finanziarizzazione ecc.) significa orientare, in funzione dello scopo voluto, la modificazione dei rapporti di forza, ora in movimento continuo. È in questo modo che ragionavano i rivoluzionari della prima metà del XX secolo: lo scoppio delle contraddizioni capitalistiche non è che la condizione per la presa del potere, il cui successo non è garantito da nessuna filosofia della storia, ma da una strategia politica e una lotta senza quartiere. Mao poteva dire «la situazione è eccellente» perché aveva un partito, un esercito, una volontà soggettiva di rottura sistemica degli imperi coloniali che lo rendeva capace di cogliere il momento e di sfruttare le opportunità. Il capitalismo è profondamente cambiato da allora, ma ci porta sempre a questa accelerazione del tempo dove si può e si deve decidere.
Qualche giorno fa, l’uomo della finanza statunitense (e quindi mondiale), Larry Fink – a capo del fondo d’investimento più importante (12.000 miliardi di dollari) – ha inviato una lettera ai suoi clienti/investitori dove preconizzava:
- che il debito pubblico e i debiti privati degli Usa sono insostenibili;
- la possibilità che, prossimamente, il dollaro possa non costituire più la moneta di scambio e di riserva internazionale. I bitcoin (moneta privata) potrebbero infatti sostituirlo;
- un nuovo – e positivo – ruolo dell’Europa, in cui lo stesso fondo d’investimento sta agendo per costruire una bolla degli armamenti. Quando i capitali vorranno fuoriuscire dalla Borsa statunitense che Trump sta minando, essi avranno bisogno di un approdo.
- l’estensione della democratizzazione della finanziarizzazione – ossia la «finanza per tutti» – perché Trump, con le sue politiche di industrializzazione, rischia di distruggere i fondamenti su cui essa si basa.
La nota sull’Europa di Larry Fink, merita una prima precisazione. Tutto cambia molto velocemente, il «tempo è uscito dai suoi cardini»: la corsa agli armamenti della Dis-Unione europea e dei fondi di investimento americani, al primo scossone delle borse causato dall’introduzione dei dazi di Trump, ha dimostrato tutta la sua debolezza. I valori delle industrie d’armi sono crollati come tutti gli altri. I capitali non sanno più dove andare, neanche l’oro, oggi, è un bene rifugio. In Germania, unico paese europeo che ha la disponibilità finanziaria per armarsi veramente, emergono anche grossi problemi politici. La CDU ha subito un tracollo dei sondaggi dopo l’annuncio del grande indebitamento voluto da Merz. Secondo alcuni sondaggi, il partito conservatore è allo stesso livello dei fascisti, secondo altri l’AfD ha addirittura superato la CDU. Gli elettori non hanno perdonato il volta faccia di Merz: in campagna elettorale aveva promesso di non sottoscrivere nessun nuovo debito.
Il progetto di costruire intorno al riarmo una finanziarizzazione (quindi una nuova bolla) e un mercato unico dei capitali (come voleva Draghi), convogliando al suo interno il risparmio europeo, ne esce ridimensionato.
È ancora difficile definire con precisione lo scenario del cambiamento epocale che stiamo vivendo perché la Casa Bianca sembra indecisa sulle politiche da seguire. Avanziamo alcune ipotesi che si tratterà di precisare in seguito, seguendo passo dopo passo le mosse del nemico di classe.
Non ho mai capito perché molti, dopo il 2008, continuassero a parlare di neo-liberalismo, quando questo sistema era evidentemente morto. Le barriere doganali hanno ora celebrato il definitivo funerale del mercato, della concorrenza, del libero scambio, tutte ideologie sotto cui erano celate la formazione delle più grosse centralizzazioni e dei più estesi monopoli della storia del capitalismo.
La situazione attuale è figlia della crisi finanziaria del 2008, determinata dalla follia dell’ideologia capitalista secondo cui un problema sociale (ossia la casa per tutti) può essere risolto dalla finanza (con la creazione dei mutui subprime). Le politiche promosse dagli Stati e delle banche centrali non hanno avuti gli effetti sperati. La crisi non è stata risolta, ma solo tamponata, ed è stata fatta pagare al resto del mondo. Fare oggi la stessa operazione sarà molto più difficile, se non impossibile. Alla fine, i nodi vengono al pettine. Nel capitalismo c’è un «eterno ritorno» delle guerre per uscire dalle crisi sistemiche.
Il fallimento economico
L’unica promessa mantenuta dalla controrivoluzione iniziata da Thatcher e Reagan è la distruzione della classe operaia e delle sue organizzazioni, accompagnata, però, dalla distruzione delle economie degli Usa e del Regno Unito.
Trump ha ereditato una situazione economica con tutti i «fondamentali» in rosso: la bilancia dei pagamenti e l’esposizione finanziaria netta in passivo, il grande indebitamento dello Stato, delle imprese e delle famiglie. Tutti indici fuori controllo ed in accelerazione continua. La stampa di regime non ha mentito solo sull’Ucraina ma anche sull’economia statunitense celebrandone, durante la presidenza Biden, le performance. L’unica cosa che ha funzionato è stata la crescita della bolla delle imprese hi-tech, accompagnato da una crescente pauperizzazione della popolazione – questo è oggi il sogno americano: il 44% degli statunitensi non riesce neanche ad affrontare una spesa imprevista di 1000 dollari.
L’esposizione finanziaria netta negativa, che registra il disavanzo finanziario con l'estero, conferma il fallimento di Biden, che non è riuscito a invertire la tendenza, anzi. Il passivo finanziario con l’estero è salito a 26.200 miliardi. Per avere un’idea dell’enormità di questa cifra: Berlusconi è stato spodestato dalla Dis-Unione Europea per un passivo netto di 300 miliardi nei conti italiani ed è stato sostituito con un «tecnico», Mario Monti, che ha tagliato tutta la spesa sociale che poteva, puntando sulle esportazioni.
Ma è l’accelerazione di questo passivo che lascia veramente stupefatti: nell’ultimo trimestre esso è aumentato di più di 2000 miliardi. Un esempio per avere un’idea dei numeri in gioco: Trump è entusiasta perché gli Emirati Arabi Uniti hanno promesso di investire una cifra di circa 1500 miliardi in 10 anni, ossia meno di quanto l’economia americana brucia in un trimestre.
Il segretario al commercio Howard Lutnick, ha dichiarato: «Occorre risettare e ridefinire i rapporti degli Usa, sia nei confronti degli alleati che nei confronti dei nemici. L’idea che tutti i paesi del mondo possano accumulare eccedenze commerciali e acquisire con il ricavato i nostri asset, è insostenibile. Nel 1980 eravamo investitori netti, possedevano cioè più asset del resto del mondo. Oggi gli stranieri posseggono 18.000 miliardi di asset in più rispetto a noi (in realtà sono 26.000 miliardi!, ndr). Sono diventati creditori netti. La situazione continua a peggiorare di anno in anno e alla fine non saremo più proprietari del nostro paese che apparterrà al resto del mondo».
I numerosi deficit degli Usa non sono il frutto di «ingiustizie» perpetrate dal resto del mondo, ma il risultato logico della finanziarizzazione e della dollarizzazione imposte da loro stessi a tutti, su cui hanno lucrato per cinquanta anni, vivendo a scrocco e molto al di sopra delle proprie possibilità.
La guerra dei dazi
Trump (o qualsiasi altro presidente al suo posto) non poteva non intervenire. Lo ha fatto accelerando e radicalizzando lo scontro, sia interno che esterno. Ha affermato chiaramente che la finanza ha messo in ginocchio l’economia americana, trasformandola in una grande bolla speculativa, smantellando l’industria, distruggendo posti di lavoro e creando grandi ineguaglianze e povertà – per il proletariato bianco, l’unico soggetto di cui ha preoccupazione il tycoon.
Ma la ricetta «dazi» potrebbe accelerare la fine dell’Impero invece di ricostruire la «manifattura», primo obiettivo dichiarato dell’isolazionismo – il progetto di far rientrare le produzioni grazie a agevolazioni e finanziamenti pubblici è già fallito con i democratici. Gli Usa non hanno le filiere d’approvvigionamento e le infrastrutture industriali necessarie ma, soprattutto, hanno perduto tutti i saperi industriali e mancano di una forza lavoro qualificata, ad ogni livello, per far funzionare le imprese – solo il 7% degli studenti americani seguono un corso di ingegneria, contro il 25% in Russia e i milioni di ingegneri che escono dalle Università cinesi. Per sottolineare la volontà di re-industrializzare, Trump, nella conferenza del 2 aprile in cui ha annunciato i dazi, era accompagnato da un operaio di Detroit. Il suo successo sembra molto improbabile e comunque necessiterebbe di anni prima di potersi realizzare. Tempo che l’Impero non ha.
La seconda strategia trumpiana potrebbe essere centrata sui servizi. La mossa del tycoon, ad oggi, sembra tutta concentrata sui beni e pare ignorare il terziario. Se l’importazione dei primi fa degli Usa un paese in deficit, l’esportazione dei secondi è largamente in attivo.
In cambio di un abbassamento delle barriere doganali, Trump potrebbe chiedere una penetrazione della finanza, delle assicurazioni, delle banche americane nel circuito dei vari paesi, per un’ulteriore e definitiva predazione. Privatizzare i servizi e appropriarsi di tutto il risparmio – ricordiamo: gli americani non risparmiano, vivono a debito – per investirlo in assicurazioni private per la salute, per le pensioni, ecc., eliminando il sempre più malandato welfare. Sempre Larry Fink, nella sua lettera, ha definito la nuova frontiera dell’appropriazione: i monopoli naturali (gestione dell’acqua, ecc.) e i servizi pubblici comunali (gestione dei rifiuti ecc.).
Si potrebbe interpretare in questo senso la dichiarazione di Trump «stiamo aprendo la Cina». Ossia: una volta entrati con i nostri capitali, fare razzia del suo risparmio e delle imprese più redditizie. Quello che non sopportano gli americani è che la Cina, controllando i flussi di capitale, non sia disponibile a farsi saccheggiare come tutti gli altri paesi dai nuovi eserciti coloniali della finanza. La Cina ha già fatto sapere che «combatterà fino alla fine» contro il «tipico caso di unilateralismo, protezionismo e bullismo economico» di Trump.
Il tycoon aveva dato l’impressione di voler riconoscere le altre potenze mondiali, di accettare il multipolarismo. Inizialmente sembrava che volesse far passare il risanamento dell’economia Usa attraverso negoziati con Cina, Russia ecc. Invece oggi afferma che gli Usa possono farcela da soli perché sono i più forti.
Autarchia contro la globalizzazione. Un unipolarismo isolazionista molto aggressivo fondato sul presunto strapotere statunitense che non lascia presagire niente di buono perché già incardinato sul sentiero che conduce alla guerra tra grandi potenze. Dopo meno di una settimana, Trump ha dovuto fare un passo indietro, arrivando finalmente al nocciolo della strategia di tutte le amministrazioni d’oltre oceano: la guerra alla Cina. È molto probabile che ne escano sconfitti – così come Biden ha perso con la Russia – perché gli Usa non hanno nient’altro da offrire al resto del mondo se non la loro stessa egemonia e il ristabilimento di un’economia predatrice e imperialista, sviluppando incertezza, caos e imprevedibilità. La guerra dichiarata alla Cina è la guerra dichiarata ai Brics e al sud globale che ha l’arrogante pretesa di non essere più disponibile alla schiavitù.
Ci aspetta sicuramente un’altra campagna mediatica di disinformazione, di falsità e di volgarità sulla Cina, dopo quella sulla Russia. La Dis-Unione Europea dovrà allinearsi con i suoi padroni, in un’altra guerra all’insegna della «democrazia contro l’autocrazia», della «libertà contro la dittatura».
Scontro tra oligarchie
Trump ha già adesso non pochi problemi in casa. Il crollo del listino dei valori borsistici impatta direttamente sulla vita di milioni di americani. I risultati negativi della Borsa, in un’economia finanziarizzata, incidono sulla vita delle classi medio/alte: 1/3 dei loro redditi è legato alla performance della finanza. Wall Street è il corrispettivo americano di Inps, ministero della Sanità e Welfare. Quando la Borsa va giù, perdono valore anche le capitalizzazioni per la pensione, per la salute, ecc.
La strategia dei fondi, sostituire il welfare con l’investimento in titoli (tramite assicurazioni individuali) è andata molto avanti con Biden, che ha alimenta la bolla americana fino a portarla al limite dello scoppio. Sgonfiarla è una necessità: ma come farlo senza intaccare pensioni, sanità, «welfare» finanziarizzato, ecc.?
Trump ha le mani legate dalle politiche monopolistiche dei fondi che raccolgono il risparmio mondiale e che non condividono le sue scelte di industrializzazione, proprio come la Fed, che non obbedisce ai suoi ordini. BlackRock e JP Morgan hanno attaccato direttamente la sua politica accusandolo di mettere sul lastrico milioni di risparmiatori, manifestando uno scontro sempre più violento all’interno delle oligarchie Usa.
La battaglia tra velleità «industriali» (rappresentati da Trump) e finanza «reale» (rappresentata dai fondi) è stata vinta dalla seconda: quattro/cinque giorni di caduta dei titoli (e di evoluzione dei tassi sui titoli sul debito) hanno costretto il presidente a indietreggiare. I motivi per cui Trump è stato eletto (riportare l’industria, il lavoro e l’impiego negli States) sono difficilmente realizzabili per un miliardario e la sua cricca. Anche perché il suo progetto è altamente contraddittorio: per industrializzare, ammesso e non concesso che ci sia ancora tempo per farlo, avrebbe bisogno di un grande welfare che abbassi tutti i costi (educazione, comunicazioni, infrastrutture, ecc.) per le imprese. Invece il governo attuale sta distruggendo il welfare.
Gli Usa non risolveranno nessuno dei loro problemi e, con tutto l’Occidente, rischiano di implodere più velocemente del previsto. La situazione diventa sempre più pericolosa.
Solo quando si parla di Cina le pesanti divergenze tra oligarchie si appianano e le loro volontà convergono. Tutti vorrebbero appropriarsi della produzione cinese, dei suoi beni, dei suoi capitali secondo le regole del più classico degli imperialismi.
Il resto dell’Occidente non è messo molto meglio. Faccio notare che Francia e Regno Unito sono nella stessa situazione deficitaria degli Usa. La prima, con 800 miliardi di dollari di esposizione finanziaria netta, è praticamente fallita, tenuta in piedi solo da capitali tedeschi; il secondo è in situazione ancora peggiore. Infine, il «regime change» operato dalla guerra in Ucraina non ha funzionato con la Russia, ma con la Germania. Privata dell’energia russa a basso costo, caduta in recessione, i tedeschi sono passati dall’ordo-liberalismo del pareggio di bilancio – che ha imposto austerità, povertà ed espropriazione di risorse a tutta l’Europa – alla finanziarizzazione della loro economia e alla sottoscrizione di astronomici debiti per il riarmo.
Il bellicismo europeo che vedrà al suo centro il pericolosissimo sciovinismo tedesco (in Germania si parla già di dotarsi dell’atomica), non è nella maniera più assoluta in rottura con gli Usa.
Lo scontro con i Brics
La grande incertezza e confusione delle strategie di Trump trovano ragione nella situazione inedita in cui si trova ad agire: i rapporti di forza sono radicalmente mutati nel mercato mondiale. È questo il principale risultato delle rivoluzioni del XX secolo che hanno distrutto la divisione coloniale su cui si fondava il dominio occidentale sin dalla conquista dell’America. Le rivoluzioni socialiste del XX secolo sono finite, ma i rapporti di forza tra nord e sud sono cambiati per sempre. Trump fa finta di niente, ma deve gestire la sconfitta strategica del suo paese nella guerra in Ucraina, che ha mostrato al sud del mondo la debolezza anche militare dell’Occidente.
Il paragone con la prima crisi egemonica degli Usa a cavallo degli anni Sessanta e Settanta è molto significativo. L’economia americana non riusciva già allora a tenere il passo con la competitività della Germania e del Giappone. Nel 1971, contestualmente alla decisione di dichiarare l’inconvertibilità del dollaro in oro, trasformando la valuta statunitense in moneta-segno tutta politica a disposizione degli yankees, Nixon, impose barriere doganali del 10% per negoziare e imporre la volontà dell’Impero, proprio come Trump. Quattro mesi dopo tutti i vassalli occidentali accettarono un apprezzamento delle loro valute. Il Giappone nel 1985, accettò di rivalutare lo yen per salvare la competitività Usa, facendo completo harakiri: da quel momento in poi, la sua economia ha conosciuto un declino inarrestabile. In quel momento il paese del Sol Levante era all’avanguardia dal punto di vista della produttività e dell’innovazione. Ma la Cina di oggi non è un paese occupato militarmente e asservito come il Giappone degli anni Ottanta, quindi la speranza che possa accettare supinamente i diktat statunitensi rimarrà inevasa.
Anche se Trump crede di ricattare il resto del mondo – perché gli Usa funzionano come «importatore di ultima istanza» di beni – la loro azione si dispiega in un mondo di rapporti di forza radicalmente mutato. All’inizio degli anni Settanta, l’Occidente deteneva l’essenziale della produzione mondiale e dell’innovazione tecnologica. Oggi la Cina e i Brics sono potenze industriali e tecnologiche, paragonabili all’Occidente da quel punto di vista. Inoltre posseggono gran parte delle materie prime ed energetiche e non hanno nessun interesse a salvare la pelle dell’Imperialismo occidentale ripianando i passivi della loro bilancia dei pagamenti, svalutando le loro monete, distruggendo le loro economie, aprendo le porte alla finanza di Wall Street. Non sono vassalli dell’Impero come gli europei. Agli Usa non resta che spellare l’Europa, sempre pronta al sacrificio, ma è troppo poco.
L’Occidente è condannato da Trump a un ulteriore isolamento, perché i Brics e il sud globale continueranno a sviluppare catene produttive e commerciali alternative, cercando una moneta in sostituzione al dollaro, incrementando brevetti, tecnologie, ecc. come hanno fatto in occasione della guerra in Ucraina.
Guerra e lotta di classe
Prima della guerra commerciale contro il mondo intero, c’erano due alternative sul campo: da un lato i democratici puntavano alla guerra mondiale, di cui hanno seminato le premesse con l’Ucraina e il genocidio di Gaza – il New York Times ha pubblicato un’inchiesta dove dimostra che la guerra in Ucraina è stata gestita in prima persona dagli Usa – dall’altro, Trump sembrava piuttosto orientato verso una guerra civile interna.
Negli Stati Uniti, la guerra civile ha sempre avuto una connotazione razziale, sin dalle origini della Repubblica. A partire dal New Deal, la guerra civile razziale è anche al centro della strutturazione del welfare: ogni estensione di quest’ultimo rischia di far saltare le gerarchie di razza su cui è organizzata l’«unica vera democrazia» (citazione di Hanna Arendt). Già ai tempi della «Great society» degli anni Sessanta, le politiche sociali avevano suscitato l’odio razziale dei bianchi che le interpretavano come riduzione delle differenze tra loro e gli afroamericani. Anche il timidissimo Obamacare (e Obama stesso) aveva suscitato reazioni di questo genere. I «proletari» bianchi che stanno con Trump hanno reagito, sentendosi e pensandosi «razza bianca». La finanziarizzazione ha smussato le gerarchie razziali impoverendo i bianchi rendendoli sempre più vicini ai «neri», scatenando nuove forme di fascismo e razzismo.
I tagli alle spese sociali che Musk sta programmando devono essere accompagnati dal ristabilimento di gerarchie razziali (e di genere). La riorganizzazione delle spese sociali è capitalistico-razziale e la reindustrializzazione, se mai vi sarà, sarà dominata dalla razza bianca. Se invece l’obiettivo è la mega predazione finanziaria, il proletariato statunitense nel suo insieme sarà ridotto a «plebe». Quando l’imperialismo Occidentale si radicalizza, la «razza bianca» è il soggetto che supporta il conflitto con il resto del mondo (vedi il genocidio suprematista in Palestina).
Come si vede le difficoltà esterne – i Brics – e interne – le «minoranze» razziali che stanno diventando la maggioranza, la povertà, lo scontro tra oligarchie, ecc. – sono enormi, e sono tutte questioni politiche. Trump vuole l’industrializzazione, ma non vuole – o meglio non può – mollare la finanza e il dollaro, fattori che hanno causato la delocalizzazione della produzione. Trump vuole un dollaro deprezzato, ma che, allo stesso tempo, resti la moneta su cui sono incentrati gli scambi mondiali. Inoltre vuole industrializzare, ma anche la finanza che cattura capitali e li convoglia negli Usa per pagare il debito. In parole povere, Trump vuole la «botte piena e la moglie ubriaca».
Se siamo immersi in un regime di guerra è perché le difficoltà economiche Usa e le contraddizioni che generano sembrano insormontabili. La guerra, come sempre, resta la miglior soluzione per i capitalisti e i loro Stati: far saltare il banco, così «Dio riconoscerà i suoi». Però, come spiegavamo, a differenza di Nixon, gli Usa non hanno più tutte le «carte in mano».
Tutti questi bei ragionamenti di geo-politica fanno i conti senza l’oste. Come nella tradizione delle analisi che partono dalle grandi potenze economico-politico-statuali, si ignora lo scontro di classe. Le forze emerse nelle manifestazioni del 5 aprile (1400 cortei in tutto il paese) contro le politiche di Trump, sembrano le uniche capaci di scongiurare l’esito catastrofico che seguirà al probabile fallimento dell’Occidente. La mossa d’azzardo del capitalismo potrebbe aprire un inedito fronte di classe negli Usa, facendo saltare il patto razziale, anche se la radicalizzazione dello scontro trova i movimenti impreparati da un punto di vista politico e teorico.
Il pensiero critico, ma anche l’azione dei movimenti, ha analizzato lo sfruttamento del capitalismo su ogni relazione sociale (conoscitiva, biologica, immaginaria, sessuale, razziale, ecologica e così via, all’infinito) ma, in maniera irresponsabile, per non dire opportunista, ha eliminato la guerra e la guerra civile, fondamento delle divisioni di classe, di razza e di genere. Il XX secolo ha stabilito che guerra e pace, economia e guerra, politica e guerra, militare e civile, politica ed economia, convivono, determinando una «dimensione intermedia» dove gli opposti convivono. Carl Schmitt, da un punto vista conservatore, arriva a conclusioni molto simili a quelle di Rosa Luxemburg, già citata nel testo precedente: «La guerra viene condotta su un nuovo, più solido terreno, come attuazione non più semplicemente militare di ostilità (...), anche settori extra-militari (l’economia, la propaganda, le energie psichiche e morali dei non combattenti) vengono coinvolti nella contrapposizione di ostilità. Il superamento del dato puramente militare (...) non significa perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione dell’ostilità». Ma né l’economia, né la critica dell’economia politica sembrano capaci di integrare questa realtà: il capitalismo non è una realtà puramente economica.
Inoltre, bisognerebbe interpretare diversamente il comportamento delle élite, non soltanto con categorie psicologizzanti, che oggi vanno alla moda ma che servono a poco. L’apparente razionalità delle politiche delle classi dirigenti capitalistiche del dopoguerra è figlia delle due guerre mondiali. Ricordiamo che già negli anni Trenta del secolo scorso la finanziarizzazione ha rischiato di far crollare il capitalismo. Inoltre, sono le rivoluzioni che hanno parzialmente bloccato la razionale irrazionalità del capitalismo, che raggiunge il suo apice con la finanza. Tolta la forza del nemico rivoluzionario, le élite sono tornate quelle del primo imperialismo, come sta accadendo oggi.
Lo stretto rapporto tra capitale e Stato che esiste sin dall’emersione dell’accumulazione capitalista e che si è continuamente risaldato e approfondito, mostra come nei periodi di «accumulazione originaria» come questa, il plus-valore economico ha bisogno del «plus-valore politico» (geniale definizione di Schmitt coniata a partire dal concetto marxiano) per imporre un nuovo ordine, une nuova divisione internazionale del lavoro e della rendita. Il capitalismo finanziarizzato, sviluppando contraddizioni insanabili, non può mutare, trasformarsi, fare scaturire il nuovo in maniera immanente alla sua «produzione». Può farlo solo ricorrendo alla violenza extra economica della guerra (militare e economica), della guerra civile, del genocidio. Il plus-valore politico è in funzione del plus-valore economico futuro, ma queste due variabili non sono della stessa natura. Solo una volta che il plus-valore politico ha stabilito un nuovo ordine, nuove regole, nuovi poteri (ossia chi comanda e chi obbedisce) nel mercato mondiale, il plus-valore economico può essere prodotto.
La fine possibile del capitalismo – contro l’ideologia irresponsabile del «è più probabile la fine del mondo» – che preoccupa i nostri dirigenti, deve tornare dentro l’orbita percettiva, cognitiva e politica dei «movimenti». Il capitalismo potrà crollare solo se una volontà organizzata spingerà in questa direzione.
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