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15/01/2014

La Grande Bellezza, un film che disorienta

Condividere alcune impressioni, a volte risulta urgente anche in relazione alle impressioni e ai commenti/recensioni di un film che sta facendo discutere: La Grande Bellezza di Sorrentino. Perché lʼurgenza, mi chiedo? Da quale sentimento profondo viene mossa lʼurgenza a comunicare unʼemozione o un pensiero?

Certamente la rappresentazione abbastanza barocca, piena di citazioni cinematografiche, Fellini, Bunuel, a tratti Almodovar, mi hanno fatto provare un'immensa nostalgia per una cinematografia che comunque non esiste più. Le immagini, anche filmiche, appartengono alla storia e noi oggi possiamo guardare un ritratto di Rembrandt o unʼopera di Magritte ritrovando echi di qualcosa di familiare perché appartenenti alla memoria collettiva. Lontani nel tempo, certo ci parlano dell'autore, ce lo raccontano, ma ci raccontano, attraverso le immagini anche il pensiero e i vissuti, le emozioni di unʼepoca e questo vale per qualsiasi opera. Così è anche per i film. Sorrentino nella Grande Bellezza sembra mosso da qualcosa che somiglia molto alla sindrome di Stendhal, proprio come il giapponese che stramazza al suolo di fronte allo spettacolo che vede di fronte a se dalla terrazza del Gianicolo. Forse è questo che in tutto il film disorienta e inquieta. Disorienta lʼeccessiva quantità di riferimenti e citazioni, che risultano ridondanti. Basti pensare agli animali di Bunuel, qui rappresentazione digitale che se ripropone in versione moderna un simbolismo necessario al nutrimento dell'anima, resta comunque sovraesposto ed eccessivamente manierato rispetto ad una bella fotografia che descrive a pennellate e carrellate la luce dorata e sublime di una Roma immortale dove lʼesistenza di ognuno si perde e dove nell'oscurità, le luci artificiali illuminano il lusso e la volgarità, la fragilità di vite perdute nell'ʻImmagineʼ dove i soggetti spariscono nel dover essere, nella finzione smascherata tragicamente dal protagonista, il viveur Jeppy. Il Re che si vede nudo, che si confronta con la propria nudità. Gli altri continuano a magnificarlo, ma lʼimperatore di fronte a questo si ritrae perché, forse, sa che il suo tempo è finito. La sua vita sta finendo e forse sta finendo un'epoca, anche se di quest'epoca non si trova traccia dei drammi che lʼhanno consumata, non si si ritrovano i resti dei sogni che lʼhanno, un tempo, resa viva. Certamente bella la rappresentazione di una Roma o di unʼItalia decadente, come molti hanno letto nel film. Lʼeternità della grande bellezza di Roma ma soprattutto lʼeterna volgarità della decadenza, che si ripropone sostanzialmente immutata in ogni epoca, seppure profondamente diversa negli stili.

Ma torniamo all'urgenza di scrivere queste riflessioni. Mi ha mosso lo stupore di fronte ad un particolare: non ho trovato alcuna recensione che parlasse della morte, così presente in tutto il film. Unico vero filo conduttore di tutta lʼopera. È proprio nella trattazione di questo tema che il film può ricomporre la sua frammentarietà. Attenzione, morte e decadenza non sono la stessa cosa, la morte non può essere collocata ʻimplicitamenteʼ nel processo di decomposizione, perché la morte e solamente la morte, è la fine, sia di un organismo vivente che di unʼorganismo sociale. Finché la vita non si spegne è vita, può essere una brace che durerà a lungo e a lungo darà segni e significati.

Questo è il senso di una rappresentazione decadente del berlusconismo che comunque continua ad esistere al di là, purtroppo, di unʼapparente sconfitta. Quale orrenda rimozione collettiva quindi, direi negazione, della morte. Il film ne è pieno, il giapponese, scena iniziale del film, che cade a terra forse privo di vita sulla terrazza del Gianicolo, il sessantacinquesimo compleanno di Jeppy, non proprio un giovincello che apprende della morte del suo primo amore, di cui non ricorda il motivo della separazione. Separazioni e morti che accadono senza memoria e senza storia. La morte della figlia dell'amico e del figlio, tormentato proprio dalla morte, dell'amica. Una leziosa lezione sui funerali: su come ci si veste e ci si comporta, quanto si deve o non si deve piangere, quando farsi vedere o nascondersi durante un funerale. Insomma la rappresentazione della morte senza una ritualità vera, senza un vero interesse a conoscere le cause delle morti descritte, inutili dettagli per una rappresentazione perfetta. La condoglianza al vecchio amico, il funerale del giovane depresso, lʼunico che poneva il problema e a cui tutti offrivano consolazione e vita. Insomma lʼoscena pietrificazione della fine senza il racconto di ciò che cʼè prima della morte: la malattia e la follia vengono appena citate, si sciolgono nella decadenza collettiva, nell'anonimato, nella rappresentazione appunto.

Ma chi ha custodito e ancora custodisce quest'umanità sciocca, chi la foraggia, la osserva, la tiene dʼocchio? È quel signore molto benvestito del piano di sopra che osserva distaccato e compiaciuto la sua opera, forte del suo potere, e qui non si capisce perchè la DIA dovrebbe arrestarlo, che grida sprezzante siamo noi che governiamo il mondo. Citazione acritica e pesantemente fatalista, ad indicare l'assoluta intrasformabilità del potere, seppure apparentemente alla fine. Un bel soggetto da Trilateral. Certamente il film ha smosso riflessioni ed emozioni e questo per il cinema italiano, agonizzante, per lo più manierato asservito è un pregio, resta comunque il dubbio che lʼautore voglia salvare il protagonista che finalmente tornerà a scrivere, come redento da una presa di coscienza effimera, da lui stesso sottolineata con lʼimprobabile immagine anche di una madre Teresa ridicolizzata all'estremo, letteralizzazione penosa del detto ʻnon stare con i piedi per terraʼ, che lo ricolloca comunque nellʼagonia di quella brace che continuerà ad ardere a lungo fino a quando qualcuno non deciderà che è ora di spegnerla definitivamente.

A conclusione mi permetto io una citazione cinematografica sulla decadenza. il sublime film dei fratelli Taviani: Cesare deve morire.

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