L’imputato numero 83 urla da dentro un cubo di vetro. Stavolta indossa l’abbigliamento bianco dei detenuti e grida d’essere il presidente. L’aveva già fatto nello scorso novembre stretto in un anonimo ma dignitoso completo grigio, sempre in cattività. Ora nessuno sembra ascoltarlo. Nelle immagini trasmesse in differita dalla tivù di Stato sembra un leoncino in gabbia, cui né giudici né giornalisti presenti in aula prestano attenzione. In una sola occasione riceve risposta, quando chiede al togato: “Chi è lei?” aggiungendo: “Sa chi sono io?”. Laconica replica: “Io sono il capo della Corte Criminale”. L’organo che accusa il dottor Mohamed Mursi, leader della Fratellanza Musulmana, eletto presidente della Repubblica d’Egitto a fine giugno 2012 con oltre 13 milioni di voti, di collusione con forze straniere durante la rivolta che rovesciò Hosni Mubarak. Un’accusa per la quale rischia la pena capitale. La stessa condanna (suffragata anche dai massacri dei 18 giorni di ribellione di piazza Tahrir) cui l’ex raìs era scampato in virtù dell’età. Ruoli rovesciati. Nel ribaltone egiziano che rilancia alle stelle le stellette si vocifera d’una prossima liberazione del vecchio faraone, possibile regalo del futuro presidente Al Sisi.
Mursi è anche accusato di complotto contro lo Stato egiziano (quello di Mubarak) e per un’evasione di massa dalle patrie galere, realizzata con altri ventimila reclusi nei giorni dei tumulti della “Primavera”. Secondo il pm fuggì aiutato da militanti di Hamas ed Hezbollah, ben 800 miliziani palestinesi e libanesi che s’infiltrarono nel Paese usando armi per un’azione che provocò la morte di quattro agenti. Tutto ciò è un’aggravante che conferma la linea della messa al bando della Confraternita “per pratiche terroriste”. Dalle segrete alessandrine di Borg Al-Arab Mursi è stato trasportato in elicottero sin dentro l’accademia di polizia cairota dove era allestita l’aula giudiziaria. Luogo presidiato da migliaia di uomini in nero che hanno formato una rete fittissima di posti di blocco, rafforzati da cavalli di frisia e filo spinato. Un filtro impenetrabile per qualunque manifestazione di solidarietà verso il presidente scippato e ora recluso. Secondo alcuni commentatori l’udienza di ieri non aveva un valore giudiziario ma mediatico. Serviva a denigrare ulteriormente la leadership islamica, che conta fra gli accusati El-Khatatni, El-Erian, El-Beltagy, mostrandola fra le sbarre snobbata dalla Corte. La Corte si riunirà di nuovo il 22 febbraio.
Pur non riconoscendo legittimità ai magistrati, stavolta i Fratelli hanno scelto di farsi difendere da un pensatore islamico, Mohamed Selim El-Awa. Intanto altri attacchi jihadisti sono andati a segno: il generale Mohamed Saeed capo dell’Ufficio tecnico del Ministero dell’Interno e collaboratore del ministro Ibrahim è stato colpito a morte da un killer. La rivendicazione, anche in questo caso, è giunta a nome del gruppo filo qaedista Ansar Beit Al-Maqdis. Uno dei volti dell’odierno Egitto.
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