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30/01/2014

Una Cgil in crisi. Anche di democrazia

Da tempo l’aria in Cgil non è delle migliori. Ma da quando alla segreteria è arrivata Susanna Camusso anche quel tanto di “garbo” nel confronto interno sembra finito in soffitta. Non tanto se si fa caso alle parole, moltissimo se si sta attenti agli atti. Diciamo che il nuovo “accordo del 10 gennaio” – chiamato addirittura “Testo unico”, come se fosse già legge scritta nella pietra – e l’andamento del Congresso hanno alquanto appesantito sia la materia del contendere che i toni.

Nella conferenza stampa convocata stamattina dai firmatari del “documento n. 2” (“Il sindacato è un’altra cosa”) se ne sono sentite un po’ di tutti i colori, almeno per un’organizzazione che di solito cerca di offrire all’esterno un’immagine “compatta”.

È toccato ancora una volta al volto più noto di quest’area, Giorgio Cremaschi, illustrare le critiche, le ragioni, le palesi violazioni dello Statuto commesse dalla “maggioranza” o direttamente da Camusso in entrambi i terreni aperti (accordo e congresso); al punto che distinguere le due materie non è sempre agevole, per i non addetti ai lavori.

L’intesa del 10 gennaio, sottoscritta insieme a Cisl, Uil e Confindustria, è definita lapidariamente “illegittima”. Almeno stando allo Statuto della Cgil, che persegue la “piena libertà sindacale” e rigetta qualsiasi idea di “monopolio preventivo” della rappresentanza dei lavoratori. Con una “aggravante”: non si è fatto ricorso alla consultazione degli iscritti alla Cgil, come pure previsto dallo Statuto. Quindi “non ci impegna come iscritti e dirigenti della Cgil, non lo rispetteremo”. Ma anche se la consultazione fosse stata fatta e avesse ratificato la decisione, premette Cremaschi, “noi ci saremmo opposti egualmente perché, come ha fatto la Fiom nel caso del referendum di Pomigliano, quando si mettono in discussione i diritti fondamentali non c’è voto che tenga”.

Camusso, in una lettera inviata agli iscritti nei giorni scorsi, s’è giustificata dicendo che questo accordo era solo “l’applicazione di quelli del 26 giugno 2012 e del 31 maggio 2013”. Cremaschi contesta proprio l’idea di sindacato che è alla base di un’affermazione del genere: “questo vale in Cisl, dove si fa un congresso ogni quattro anni e il rispetto del mandato viene eventualmente verificato al congresso successivo; in Cgil il mandato è permanente, e ogni ipotesi di nuovo accordo va subito sottoposto a referendum interno”. I dirigenti Cisl sono insomma “proprietari pro tempore” della decisione; la segreteria Cgil è – dovrebbe essere – al contrario “delegata” atto dopo atto.

Questi dirigenti della “minoranza” Cgil si rivolgono pertanto al Collegio Statutario dell’organizzazione – “la nostra Corte Costituzionale” – perché dia un parere negativo su quell’accordo e ne invalidi la firma da parte della segreteria confederale. Ovvio che il Collegio sia composto in maggioranza da membri nominati dalla maggioranza. Che senso ha allora far questo? Si tratta di un ricorso “molto meditato”, spiega, che ha raccolto spunti da numerosi interventi di giuslavoristi di area Cgil (Alleva, Di Stasio, ecc); il collegio è formalmente “indipendente, giudicare questo ricorso è una prova anche per loro”. Se le risposte fossero superficiali o non esaurienti, si andrà avanti in altra sede. Ma prima di farlo si esperiranno “tutte le vie della giustizia interna alla Cgil”.

Insomma: si potrebbe finire presto in tribunale.

Tra le altre violazioni statutarie c’è quella relativa all’”equilibrio dei poteri tra confederazione e categorie”, cui lo Statuto riconosce piena autonomia nella conduzione dei rinnovi contrattuali. E proprio qui viene individuata la “ratio” di quell’arbitrato chiamato per semplicità “anti-Landini”, o anti-Fiom. In pratica, se la Fiom non dovesse accettare quel che Confindustria, Fim-Cisl e Uilm hanno “convenuto” in sede di contratto dei metalmeccanici, interverrebbe una commissione “arbitrale” formata da tre rappresentanti del padronato, un “esperto esterno” gradito a tutti, e uno per ogni sindacato firmatario. Di fatto, la Cgil accetta di essere sempre minoranza sotto processo da parte padronale; e soprattutto di far giudicare da altri – addirittura da Confindustria – la strategia contrattuale dei propri iscritti. O meglio, condanna la Fiom a stare in questa pessima posizione a vita. Altra violazione pesantissima dello Statuto.

Il Congresso, peraltro, non può “assorbire” questa discussione, perché già iniziato al momento della firma; quindi alcune struttura hanno già votato. Né può essere taciuta una variazione pesantissima tra l’accordo del 31 maggio e quello di pochi giorni fa. Allora, infatti, il testo parlava di “accordo vincolante soltanto per i soggetti firmatari”; in quello recente, invece, il vincolo è stato esteso a tutti, anche ai non firmatari. Un modo per impedire “legalitariamente” che possa esistere una posizione conflittuale esterna al recinto.

Monopolio della rappresentanza sindacale e monopolio di quella politica sembrano peraltro andare in coppia, di questi tempi. In entrambi i casi gli assetti costituzionali vengono aggirati di prepotenza. Sul piano politico-istituzionale contando sul fatto che la Consulta può intervenire solo su richiesta di soggetti istituzionali (non di singoli cittadini, per quanto influenti); mentre il Collegio Statutario della Cgil potrebbe soffrire della “sindrome della maggioranza”. E quindi le sue sentenze arrivano dopo anni, a “nuovo sistema in atto”.

E infatti, nelle parole dei “dissidenti”, il primo mese di assemblee sui posti di lavoro restituisce l’immagine piena di una Cgil in crisi. Sul piano della militanza, della partecipazione, del consenso. Anche dove il “documento di maggioranza” alla fine viene votato in massa, ciò avviene dopo critiche massicce e distruttive per la politica della confederazione. Ma prevale, sembra di poter dire, più il disgusto, lo scoramento, la disaffezione, la smobilitazione; che non la rabbia e l’opposizione frontale. Ne sono prova alcune assemblee che hanno approvato “a voto palese” gli emendamenti presentati al documento di maggioranza da Landini, e poi – a voto segreto, nell’urna – hanno dato percentuali da capogiro al “documento 2″.

Una crisi pesante che naturalmente non può essere ammessa dalla segreteria uscente. Qui il discorso si fa anche “quantitativo”. Camusso vorrebbe che la cifra dei votanti raggiungesse i due milioni, per poter parlare di “record di partecipazione”, di “crescita”, ecc. Anche dando per possibile una presenza maggiore nei congressi ancora da fare, però, Cremaschi e gli altri non sono disposti a “certificare” – a riconoscere la credibilità – di una cifra superiore ai 900.000 votanti. Nello scorso congresso erano stati un milione e ottocentomila, ufficialmente; “dato gonfiato”, viene ammesso oggi, ma allora riconosciuto come male minore in un confronto molto più articolato e vivace di questa tornata.

Tanto più quando i congressi sui posti di lavoro vengono continuamente “spostati” non appena la “minoranza” annuncia – come d’obbligo – la propria presenza. Tanto più quando lo scarto tra presenti all’assemblea e votanti – e naturalmente tutti voti “di maggioranza” – diventa impossibile da sostenere.

Tra votanti “gonfiati” e autentici “brogli” la distanza è assai piccola, in molti casi superata di slancio. Viene annunciato un “dossier” con le violazioni più eclatanti, da qui alla fine delle assemblee di base (dopo il 20 febbraio, insomma). Per il momento c’è la denuncia di “numerose irregolarità” da parte di due componenti della Commissione nazionale di garanzia – che deve giudicare dei casi contestati. Barbara Pettine e Fabrizio Burattini chiedono l’immediata cessazione di tale “consuetudine”, “tale da alterare e rendere inaccettabili i risultati congressuali”.

La Cgil come luogo dove la democrazia interna è a grave rischio, insomma. Tanto che sorge spontanea una domanda, tra i giornalisti presenti, “ma come fate a restarci dentro?”. In un clima in cui alcuni dirigenti se ne stanno già andando altrove – è il caso di Maurizio Scarpa, il vice-presidente del Direttivo Nazionale, che ha dato appuntamento sabato mattina, 1 febbraio al Centro Congressi di via Cavou, a Roma – Giorgio Cremaschi dà una risposta che restituisce effettivamente l’aria da “svolta epocale” che si respira nel paese intero: “è una battaglia di democrazia che va fatta qui dentro, perché rischiamo che si affermi un monopolio sindacale senza più democrazia interna”. Una battaglia che certamente durerà fino al Congresso di maggio e comunque “finché possibile”.

Resta l’impressione, in chi guarda da fuori, che i due termini possano finire per coincidere.

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