L’autore è un cervello felicemente in
fuga che dalla Bocconi e approdato a Berkeley per insegnare economia del
lavoro. In inglese, non solo per motivi linguistici, il lavoro del
titolo è al plurale e suona prosaicamente come Jobs, termine che
ha poca o nessuna carica politica, ma in questo contesto indica la cosa
che si fa, con inevitabile sforzo, con regolarità, per denaro. In nessun caso il termine Job rimanda alla parzialità e alla generalizzazione contenute nel termine Work. Il Job non
è il lavoro, ma un lavoro e, proprio per questo, chi lo fa può essere
indifferentemente una donna delle pulizie, un manovale, un operaio,
un’informatica o un manager. Questa sostanziale indifferenza nei
confronti del tipo di lavoro erogato può essere letta come il trionfo
del lavoro astratto. Allo stesso tempo, tuttavia, essa denota una
marcata distanza da ogni possibile soggettivazione del lavoro, facendo
sì che, «interrogati dai sondaggisti la stragrande maggioranza degli
americani – a prescindere dal fatto che guadagnino 20.000 o 300.000
dollari – risponde di appartenere al ceto medio». Moretti scorge in
questa indistinzione sociale, cioè in questo «diverso atteggiamento nei
confronti dell’ineguaglianza e della distribuzione della ricchezza»
[221], il fondamento della specifica tendenza americana
all’imprenditorialità individuale. La centralità politico-ideologica che
assume così la categoria di middle class è anche alla base della
tendenza storica statunitense a non organizzare politicamente il
lavoro. Si potrebbe persino sostenere che il 99% di Occupy Wall Street altro non sia se non la massima estensione possibile di questa medietà sociale in rivolta.
Qui però non è in questione la storia
del lavoro, ma la distribuzione economica e politica delle chances di
valorizzazione del capitale. Negli ultimi decenni, non a caso, la
geografia sta tornando ad assumere il ruolo di scienza levatrice del
capitalismo che aveva ricoperto ai suoi albori, quando ne accompagnò
l’affermazione su scala planetaria. Solo la frivola tracotanza della
ministra Gelmini poteva pensare di abolirne l’insegnamento nel 2010,
proprio quando era ormai evidente il ruolo fondamentale che essa stava
assumendo nell’organizzazione complessiva di alcuni saperi scientifici. La geografia dei lavori dimostra per Moretti la loro dipendenza strutturale dai luoghi in cui vengono erogati.
La geografia del capitale ha per converso un carattere irresistibile e
spiega come un ordine che si pretende casuale possa avere delle cogenti
motivazioni interne che lo legittimano. La geografia del capitale è
la sua razionalità immanente. Essa letteralmente costituisce lo spazio
nel quale individui e governi sono costretti a operare.
Assumendo come punto prospettico la
spazialità del capitale, Moretti ricostruisce le ragioni e l’attualità
della «grande divergenza» che negli ultimi trent’anni ha inesorabilmente
allontanato l’America ricca dell’innovativa industria high tech
da quella povera relegata al manifatturiero. Le città sono i luoghi di
questa differenza al punto che, nonostante la valorizzazione del sapere e
del capitale umano, lo stipendio finisce per dipendere più dal luogo
dove si abita che dal curriculum. Non è infatti il grado di istruzione
del singolo lavoratore, quanto piuttosto la concentrazione di lavoro
cognitivo a stabilire la convenienza del suo impiego. Nonostante
alcune leggende che hanno attraversato anche i movimenti, la conoscenza
non è come la forza e quindi non si espande ovunque nell’universo. Essa non stabilisce i presupposti universali per ridefinire uniformemente le condizioni di lavoro di tutti i lavoratori: come non siamo tutti facchini, così non siamo tutti lavoratori cognitivi.
La scienza come fattore produttivo si condensa in alcune città
determinando il livello del salario dei lavoratori cognitivi. Come
Moretti dimostra con abbondanza di evidenze empiriche, questi alti
redditi moltiplicano i lavori in misura molto maggiore di quanto avvenga
nella manifattura, anche se si tratta di parrucchieri, istruttori di
fitness, maestri di yoga e piccoli artigiani di prodotti di nicchia. La
città è il luogo differente che rende possibile questa differenziazione
dei lavori. Nella città l’innovazione si fa industria grazie alla prossimità dei lavoratori. Nell’industria urbana dell’innovazione la cooperazione di molti lavoratori cognitivi scatena quelli che Marx chiamava gli animal spirits i quali, a loro volta, incentivano ulteriormente l’innovazione medesima.
Con la grande trasformazione dal
manifatturiero all’economia dell’innovazione alcune città americane sono
dunque diventate i luoghi privilegiati di una cooperazione produttiva
che ha stabilito una nuova modalità di accumulazione capitalistica. Registrare
questo fatto non dovrebbe però comportare la necessità di passare dal
nazionalismo metodologico a una sorta di urbanesimo metodologico,
che vede nella città non solo lo spazio effettivo in cui si condensano
le possibilità di accumulazione e quindi di lavoro, ma anche il punto
più alto dello sviluppo capitalistico rispetto al quale ogni altro
spazio è, e deve essere, gerarchicamente subordinato. La tendenza invece
sembra essere proprio questa. Come se tutte le città dovessero essere
la stessa città, come se l’innovazione consentisse di dimenticare
l’industria, l’apologetica della produzione urbana getta nel passato non
solo intere città, ma anche interi settori produttivi in modo da
subordinarli economicamente al profitto sovrano dell’innovazione. In
questo modo Seattle o San Francisco non solo relegano Detroit al rango
di reperto archeologico di un modo storicamente superato di produrre, ma
collocano l’intera attività manifatturiera in una posizione subordinata
all’interno della catena del valore. Il predominio economico della
produzione immateriale si basa, secondo Moretti, sul fatto che «il
valore aggiunto generato a Shenzen è molto basso, perché l’assemblaggio
potrebbe essere effettuato in qualsiasi parte del mondo» [13]. E questo
non è vero, perché questa subordinazione non è una mera conseguenza
tecnica della preminenza del lavoro cognitivo e dell’high tech. Schenzen e la Foxconn [#1, #2, #3, #4],
così come le altre «arretrate» produzioni manifatturiere sparse per il
pianeta, sono il cuore di tenebra dell’economia del sapere. A quelle
condizioni di lavoro, a quei salari, a quella coazione politica al
lavoro salariato, il manifatturiero, anche quello connesso alla
computeristica, è possibile solo lì e non in qualsiasi parte del mondo.
Senza una robusta dose di socialismo autoritario cinese, senza la
sistematica compressione dei salari manifatturieri, la produzione
immateriale non sarebbe così remunerativa. Non è solo che per giocare
compulsivamente a Candy Crush Saga ci vuole comunque un supporto
materiale. Non si tratta nemmeno di sostenere che la verità del
capitalismo sta in Cina invece che negli Stati Uniti, perché lì lo
sfruttamento ha i tempi e i modi della tradizione di fabbrica. La produzione high tech non è un velo che nasconde la realtà eternamente identica a se stessa del capitalismo.
Non si tratta cioè di negare la novità dell’innovazione, nella
convinzione che le leggi naturali del capitalismo riporteranno prima o
poi ogni cambiamento all’interno di una condizione di massa fatta
solamente di povertà, di sudore e di fatica. Il carattere fondamentale
di quelle leggi riguarda il capitalismo come movimento complessivo, come
sviluppo della sua valorizzazione, non uno svolgimento sempre uguale a
se stesso. Moretti ricorda che Marx è stato forse il primo a registrare
con chiarezza questa dinamica costituiva del capitale. Si deve però
aggiungere che Marx riconduce la capacità di produrre l’innovazione alla
presenza di un nucleo politico costante e invariato, che definisce
sfruttamento. Si tratta allora di cogliere la continuità sistematica
tra le diverse modalità di estrazione del plusvalore, perché non c’è
alcuna oggettività che naturalmente renda una più profittevole
dell’altra, ma un patto politico tra il profitto immateriale e quello
manifatturiero. La grande innovazione alla base della grande
divergenza tra le città americane è stata possibile grazie a una
delocalizzazione della produzione manifatturiera, che localizza il dolce
potere del profitto basato sul lavoro cognitivo nelle città americane,
ma anche il dominio incontrastato sul lavoro manifatturiero in tutte le
Shenzen del pianeta. Non è probabilmente casuale che il carattere
sistemico della globalizzazione sia visto con sempre maggior fastidio,
motivando i ritorni alle particolari sovranità nazionali oppure, come in
questo caso, a focalizzare l’attenzione su città che sono globali nella
misura in cui hanno la necessità quasi contabile di smerciare ovunque i
loro prodotti, ma possono tranquillamente ignorare la connessione
generale dei lavori e la loro gerarchia.
L’ipoteca sistemica accesa anche
sulla produzione immateriale sfugge in una ricerca peraltro basata su
una quantità impressionante di dati spesso raccolti direttamente.
Riportando i lavori alla loro erogazione locale, la parola d’ordine per
ogni lavoratore diventa inevitabilmente quella di adattarsi al sistema.
Qui però sembra essere all’opera una sorta di inconsapevole supplemento
teologico che rafforza e legittima i limiti di una geografia che accenna
compiutamente al carattere globale dell’economia capitalista solo
nell’ultimo paragrafo. La teodicea del capitale, il dio del valore,
afferma che «lui» non può fare il male, al massimo lo consente per
garantire la libertà di ogni attore economico. A fare il male sono
gli individui che, utilizzando maldestramente il loro libero arbitrio,
non si adattano adeguatamente alla spazialità del capitale. Ciò è
dimostrato per esempio dai giovani italiani che non emigrano abbastanza,
preferendo non rischiare per rimanere vicini alle cerchie famigliari
che garantiscono una riproduzione certa, anche se magari non sempre
soddisfacente. Per la geografia del valore la riproduzione individuale è
inevitabilmente subordinata alle necessità della produzione sociale.
Ogni individuo deve calcolare il proprio capitale umano e investirlo,
scegliendo su quale terreno cercare di riscuotere il profitto della
propria esistenza. I rischi sono suoi e di nessun altro. Eppure proprio nella richiesta di questa propensione individuale al rischio si celano i germi di una possibile contraddizione.
Per Moretti i migranti dovrebbero essere selezionati in base alla loro
competenza, cioè in base all’apporto che possono dare all’economia
dell’innovazione. Non si può però evitare di chiedersi se la Silicon
Valley sarebbe stata e sarebbe oggi possibile senza i chicanos i
quali, anche se non si sono fatti scegliere come fior da fiore, sono
individui che si sono assunti il rischio dell’emigrazione e della
valorizzazione. Sarebbe possibile il mondo pulito dei codici binari,
della programmazione, delle startup senza immigrati, spesso clandestini,
che accudiscono bambini, costruiscono case, coltivano arance e uva,
lavorano nelle fabbriche messicane dietro l’angolo? È possibile un discorso sul valore aggiunto che ignora l’esistenza di Jobs che incatenano al valore, non nella lontana Schenzen, ma nel quartiere vicino?
Essere convinti che l’innovazione
produca il migliore dei mondi possibili, perché la città
dell’innovazione è omogeneamente la migliore delle città possibili,
ignora serenamente la lezione delle due città. Non esistono cioè solo
due Seattle, una prima e l’altra dopo l’innovazione, ma anche una
Seattle che ne contiene un’altra, carica di differenze e di
contraddizioni. Seattle può piacere fino alla poesia, ma i quartieri
di Seattle non sono tutti uguali. La città dell’innovazione comprende
zone nelle quali gli individui non hanno gli stessi redditi e le stesse
possibilità degli altri. Vista da questa prospettiva si potrebbe dire
che dentro lo spazio locale ci sono zone globali. Come scrive il
collettivo comunista Red Spark, concludendo la sua analisi della distribuzione del reddito a Seattle: «Class is, very simply, spatial. It’s our job to make class struggle spatial too».
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