Più del 95% degli elettori egiziani ha detto sì alla nuova Costituzione,
promovendo di fatto la road map disegnata dai militari dopo la
deposizione del presidente islamista Mohamed Morsi la scorsa estate. Se
la vittoria del sì era scontata, l'affluenza alle urne è stato il dato
da guardare al photofinish. A recarsi ai seggi è stato il 38% degli
egiziani, una percentuale più bassa rispetto a quella "partecipazione di
massa" che, secondo i militari, doveva impressionare il mondo. È però
più alta rispetto a quella del referendum del 2012, quando il 33% degli
elettori aveva approvato, con il 64% delle preferenze, la Costituzione
islamista.
Il nuovo testo
A sostenere il nuovo testo sono stati quasi tutti i partiti e i
movimenti non islamisti. A loro si è aggiunto Al-Nour, il più importante
partito della compagine dell'islam conservatore che - unico ad aver
partecipato alla stesura del testo - ha preso le distanze da tutti gli
altri partiti religiosi, in primis dalla Fratellanza Musulmana.
La Confraternita, confinata nuovamente alla clandestinità dalle autorità
ad interim, ha guidato il fronte del boicottaggio, definendo il testo
al voto il frutto di un colpo di stato illegittimo. Sul fronte del "no"
si sono invece schierati due importanti movimenti giovanili, il "6
aprile" e i Socialisti Rivoluzionari. A questi si è aggiunto il partito
Masr al-Qawyia, capeggiato da Abdel Monein Abu el Fothou, l'islamista
moderato fuoriuscito dalla Fratellanza già nel 2010, candidato alle
presidenziali del 2012.
Anche se nei fatti il referendum è stato un test sui generali, la quasi
unanimità dei votanti ha promosso un testo che più del 59% degli
elettori, rivela un sondaggio, non ha letto prima di recarsi alle urne.
Una Costituzione che lascia aperti alcuni interrogativi sul rispetto dei
diritti umani fondamentali formalmente garantiti dal testo e non dice
l'ultima parola su importanti questioni istituzionali.
Pur affermando i diritti fondamentali, la Costituzione lascia ai
legislatori il compito di regolare l'applicazione concreta degli
articoli che li garantiscono. Nel nuovo testo si ritrovano articoli
vaghi tipici di quell'epoca autoritaria in cui i legislatori si sono
serviti di formule tali per giustificare, "in casi eccezionali", la
negazione di quegli stessi diritti anche attraverso pratiche repressive.
Basta pensare all'art. 73, che garantisce la libertà di manifestare ma
la subordina alle notifiche previste dalla legge. Proprio per evitare
che i legislatori contraddicano l'essenza delle garanzie civili, i
costituenti hanno inserito un meccanismo che dovrebbe limitare i rischi
di questo corto circuito, cioè appunto il divieto di legiferare contro
l'essenza dei diritti fondamentali (art.92). Per valutare la
funzionalità di questo strumento bisognerà però vedere come verrà
sviluppato.
Secondo Gianluca Parolin, giurista dell'American University del Cairo, i
cinquanta costituenti non hanno detto l'ultima parola neanche su tre
importanti questioni istituzionali.
Anzitutto, la nuova Carta non ha stabilito se lo sheikh di Al-Ahzar,
massima autorità dell'Islam sunnita, sarà eletto da un consiglio di
studiosi di questa università o nominato dal presidente. Non è quindi
chiaro fino a che punto questa autorità religiosa sarà indipendente
dallo Stato.
In secondo luogo, la Costituzione non dice fino a dove si può spingere
la giustizia militare, non chiarendo quali casi potranno rientrare nella
giurisdizione dei tribunali militari.
Infine, i costituenti non hanno neanche definito l'esatta composizione
della Corte costituzionale, poiché il numero di giudici che la
comporranno non è stato precisato.
Nelle disposizioni transitorie, i costituenti non sono peraltro riusciti
a trovare un accordo sui meccanismi elettorali, lasciando al presidente
ad interim Adly al-Manosur il compito di decidere la scaletta dei passi
successivi.
Secondo la road map annunciata dai militari l'8 luglio, dopo il
referendum si sarebbero tenute elezioni parlamentari e infine,
presidenziali. Ora però l'ordine di questi due appuntamenti sembra
invertirsi, ed entro metà aprile gli egiziani potrebbero eleggere il
nuovo presidente.
Al-Sisi corre da solo
Dopo un silenzio durato sei mesi, alla vigilia del referendum, il
general Abdel Fattah Al-Sisi ha annunciato che "Se il popolo lo vorrà e
le forze armate me lo permetteranno mi presenterò alle presidenziali". I
militari, a malincuore, sono pronti a cederlo al popolo. Vista la
popolarità di cui gode attualmente il generale, qualora decidesse di
candidarsi potrebbe anche trovarsi a correre da solo.
Neanche un plebiscito renderebbe però più facile la missione del
generale, il quale promette di stabilizzare l'Egitto attraverso un
processo politico che non include le forze politiche - cioè le
formazioni islamiste nella loro varie anime - che hanno vinto, fino ad
ora, tutte le elezioni del post-Mubarak.
A giudicare possibile la missione di Sisi sono però, in primis, gli
Stati Uniti: la Casa Bianca sta già pensando a come far rapidamente
arrivare al Cairo quei sussidi che la scorsa estate Obama aveva deciso
di sospendere. La condizione per staccare l'assegno da circa un miliardo
e mezzo di dollari sarebbe solo una: il mantenimento di buoni rapporti
con Israele.
Più scettici invece i sauditi, che dalle colonne di Asharq al-Wasat
consigliano al generale di non intraprendere questa "avventura
pericolosa" e di rimanere a "fare il guardiano della nuova Costituzione e
il protettore del regime".
In ultima analisi, le influenze esterne sono importanti ma il referendum
conferma che il destino del paese è nelle mani degli egiziani
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