di Mario Lombardo
A pochi giorni
dal voto anticipato, la situazione in Thailandia non sembra lasciare
intravedere alcuna soluzione pacifica dello scontro in atto da oltre due
mesi tra il governo della premier, Yingluck Shinawatra, e
un’opposizione che continua a rimanere nelle strade della capitale per
ottenere risposte alle proprie richieste.
La giornata di giovedì è stata infatti animata dall’ennesima marcia
di protesta nella zona commerciale di Bangkok, con il leader dei
manifestanti, l’ex vice premier e già parlamentare del Partito
Democratico all’opposizione, Suthep Thaugsuban, che ha invitato i suoi
sostenitori a partecipare ad una nuova dimostrazione domenica prossima
in concomitanza con l’apertura dei seggi.
Gli oppositori del
governo minacciano di disturbare le operazioni di un voto che hanno da
tempo promesso di disertare. Iniziative volte a impedire l’accesso ai
seggi sono state messe in atto a Bangkok e nelle province meridionali
della Thailandia già domenica scorsa, giornata nella quale era possibile
votare in anticipo. A causa dei disordini provocati dai sostenitori
dell’opposizione, dei 2,1 milioni di elettori registrati per votare
domenica scorsa, secondo il leader del Partito Democratico, l’ex premier
Abhisit Vejjajiva, solo 100 mila sarebbero riusciti a recarsi alle
urne.
Per cercare di evitare scontri e consentire un voto
regolare, il governo di Yingluck la settimana scorsa aveva iniziato ad
adottare una serie di provvedimenti, a cominciare dalla dichiarazione
dello stato di emergenza per 60 giorni nella capitale e nelle province
limitrofe. Qualche giorno fa, inoltre, è stato annunciato l’impiego di
ben 200 mila poliziotti in tutto il paese per garantire la sicurezza
durante il voto. Di questi, circa 10 mila saranno dispiegati solo a
Bangkok.
Teoricamente allo stesso scopo, anche le Forze Armate
hanno fatto sapere di volere aumentare il contingente di soldati nella
capitale e nei dintorni. Un portavoce dell’esercito ha detto giovedì
alla Reuters che 5 mila militari sono già nelle strade e il loro
compito, così come quello degli altri che si aggiungeranno da qui a
domenica, sarà quello di impedire episodi di violenza.
Nella
crisi in corso, i militari continuano a mantenere una posizione
defilata, appoggiando ufficialmente il voto nonostante i vertici delle
Forze Armate facciano parte a tutti gli effetti delle élite thailandesi
che vedono con estremo sospetto l’apparato di potere della famiglia
Shinawatra. Nel 2006, d’altra parte, l’esercito depose con un colpo di
stato il governo di Thaksin Shinawatra, fratello in esilio dell’attuale
premier. Secondo alcuni, perciò, la massiccia presenza di soldati
potrebbe preannunciare un nuovo intervento contro il governo in caso di
disordini durante o dopo le elezioni.
Il muro contro muro tra le
parti in lotta si è d’altra parte aggravato ulteriormente questa
settimana, quando il governo ha confermato lo svolgimento del voto per
il 2 febbraio, respingendo una delibera della Commissione Elettorale che
consigliava un rinvio di qualche mese a causa del clima esplosivo nel
paese. Per il vice primo ministro, Phongthep Thepkanjana, posticipare le
elezioni avrebbe prolungato l’attuale situazione, nella quale la
Thailandia risulta priva di un governo e di un parlamento con pieni
poteri, con grave danno per il paese.
La premier Yingluck, in
ogni caso, giovedì ha provato a mandare un segnale distensivo senza però
mostrare cedimenti. Dalla sua pagina Facebook ha chiesto a tutti i
thailandesi di recarsi alle urne, definendo l’appuntamento di domenica
“tra i più significativi” per “determinare il futuro democratico” del
paese del sud-est asiatico. Yingluck ha poi ricordato come i membri del
parlamento siano i rappresentanti di tutti i thailandesi e “debbano
ascoltare tutte le voci”, così che “tutti i gruppi di cittadini devono
partecipare al progresso della società”.
Il voto non si prospetta
comunque sotto i migliori auspici, visto che dallo scorso mese di
novembre si sono contati 9 morti e circa 600 feriti negli scontri di
piazza. La vittima più recente è stato un leader del movimento di
protesta, denominato Comitato Popolare per la Riforma Democratica,
ucciso qualche giorno fa da un colpo di arma da fuoco mentre stava
tenendo un discorso pubblico nella capitale.
Alle elezioni,
inoltre, non prenderà parte il Partito Democratico di opposizione che ha
deciso di boicottare il voto dopo che le dimissioni di massa dei suoi
parlamentari avevano costretto la premier Yingluck a sciogliere
anticipatamente il parlamento nel mese di dicembre.
Il Partito
Democratico appoggia, sia pure non direttamente, i manifestanti
anti-governativi, i quali chiedono le dimissioni immediate del governo,
la cancellazione del voto anticipato e la creazione di un “consiglio del
popolo” non elettivo, formato presumibilmente da esponenti del potere
giudiziario, degli ambienti reali e dei vertici militari, che nomini un
nuovo esecutivo per “riformare” il sistema politico.
L’opposizione
che chiede la rimozione del governo è composta in larga misura dalla
borghesia della capitale e da sostenitori del Partito Democratico
provenienti dal sud del paese, il cui obiettivo dichiarato è quello di
estirpare l’influenza del clan Shinawatra dalla politica thailandese.
L’ex premier Thaksin e la sorella Yingluck hanno infatti presieduto alla
creazione di un sistema di potere fondato sul sostegno delle classi più
povere ed emarginate delle aree rurali settentrionali attraverso
limitate riforme sociali, minacciando il controllo delle leve di comando
tradizionalmente nelle mani degli ambienti filo-monarchici.
La
situazione di stallo è vista tuttavia da molti con apprensione
crescente, soprattutto dal business thailandese che sta vedendo fuggire i
capitali stranieri dal paese e ridurre drasticamente l’arrivo di
turisti. Il persistere dello scontro o un’eventuale colpo di mano dei
militari peggiorerebbe poi ancor più la situazione, provocando il
probabile intervento dei sostenitori del governo, le cosiddette “camicie
rosse”, pronte alla mobilitazione in caso di necessità.
Come ha minacciosamente affermato giovedì al britannico Daily Telegraph
un leader delle “camicie rosse” in una provincia nel nord della
Thailandia, quella in corso “è già una guerra anche se finora senza
armi”. A suo dire, però, “se dovesse esserci un colpo di stato, oppure
se le elezioni non avranno luogo, allora diventerà senza dubbio una
guerra armata”.
Se anche il voto dovesse andare in porto senza
eccessive difficoltà, le prospettive non appaiono confortanti. Tanto per
cominciare, alcune circoscrizioni elettorali non avranno alcun
candidato a causa degli ostacoli posti alla loro registrazione nelle
scorse settimane dalle manifestazioni di protesta. Ciò determinerà quasi
certamente una paralisi nel periodo post-elettorale, poiché la
Costituzione thailandese prevede che il voto, per essere valido, debba
coprire almeno il 95% dei seggi del parlamento. La Commissione
Elettorale ha perciò già fatto sapere che si dovranno tenere elezioni
speciali per assegnare i seggi mancanti e che queste operazioni
potrebbero richiedere fino a quattro mesi.
Sul governo pesa poi
l’ipotesi di un nuovo colpo di stato “giudiziario” sulla scia di quello
del 2008, quando un tribunale depose di fatto un gabinetto guidato dai
sostenitori di Thaksin. La sospensione dei parlamentari del partito di
governo - Pheu Thai - o la dissoluzione del partito stesso rimane
un’ipotesi reale, come confermano i procedimenti legali avviati a
partire dall’inizio della crisi.
In particolare, 308 deputati di
maggioranza sono indagati dalla Corte Suprema per avere presentato una
modifica alla Costituzione - successivamente giudicata illegale - volta a
rendere interamente elettivo il Senato thailandese. Più recentemente,
inoltre, il governo è finito sotto accusa per la pessima gestione di un
costoso programma di sussidi destinati ai produttori di riso nel nord
del paese.
Qualche osservatore, infine, contempla però anche la
possibilità che le tensioni possano scemare dopo un voto che il partito
di Yingluck vincerà agevolmente. A far pensare una soluzione di questo
genere sono soprattutto i timori per un aggravamento dello scontro in
caso di un coinvolgimento dei sostenitori del governo e l’atteggiamento
fin qui cauto dei militari, l’unica forza in grado di imprimere una
svolta alla situazione.
Lo stesso ex premier e leader
dell’opposizione politica, Abhisit Vejjajiva, ha d’altra parte abbassato
in qualche modo i toni in questi giorni, rifiutandosi di lanciare
appelli all’astensione in vista di domenica e di rivelare se egli stesso
si recherà alle urne. Le parole di Abhisit sono giunte dopo un incontro
con l’ambasciatrice USA a Bangkok, Kristie Kenney, rappresentante di un
governo, come quello di Washington, che nel decennio scorso ha trovato
in Thaksin un partner affidabile in molti ambiti, a cominciare da quello
della “guerra al terrore”.
Per coloro che intravedono una
soluzione relativamente pacifica, perciò, il dopo-voto potrebbe
riservare un accordo più o meno tacito tra il clan Shinawatra e
l’establishment tradizionale, come già accadde in seguito al trionfo
elettorale del partito Pheu Thai nel 2011. In questo caso, Yingluck
potrebbe continuare a governare in cambio di una serie di “riforme”
gradite all’opposizione e, soprattutto, della rinuncia ai tentativi di
riportare in patria il fratello Thaksin, dopo che proprio un’amnistia a
suo favore per annullare una sentenza di condanna per corruzione e abuso
di potere aveva innescato il nuovo round di proteste che continua a
scuotere la Thailandia.
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