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31/01/2014

Thailandia, al voto sotto assedio

di Mario Lombardo

A pochi giorni dal voto anticipato, la situazione in Thailandia non sembra lasciare intravedere alcuna soluzione pacifica dello scontro in atto da oltre due mesi tra il governo della premier, Yingluck Shinawatra, e un’opposizione che continua a rimanere nelle strade della capitale per ottenere risposte alle proprie richieste.
La giornata di giovedì è stata infatti animata dall’ennesima marcia di protesta nella zona commerciale di Bangkok, con il leader dei manifestanti, l’ex vice premier e già parlamentare del Partito Democratico all’opposizione, Suthep Thaugsuban, che ha invitato i suoi sostenitori a partecipare ad una nuova dimostrazione domenica prossima in concomitanza con l’apertura dei seggi.

Gli oppositori del governo minacciano di disturbare le operazioni di un voto che hanno da tempo promesso di disertare. Iniziative volte a impedire l’accesso ai seggi sono state messe in atto a Bangkok e nelle province meridionali della Thailandia già domenica scorsa, giornata nella quale era possibile votare in anticipo. A causa dei disordini provocati dai sostenitori dell’opposizione, dei 2,1 milioni di elettori registrati per votare domenica scorsa, secondo il leader del Partito Democratico, l’ex premier Abhisit Vejjajiva, solo 100 mila sarebbero riusciti a recarsi alle urne.

Per cercare di evitare scontri e consentire un voto regolare, il governo di Yingluck la settimana scorsa aveva iniziato ad adottare una serie di provvedimenti, a cominciare dalla dichiarazione dello stato di emergenza per 60 giorni nella capitale e nelle province limitrofe. Qualche giorno fa, inoltre, è stato annunciato l’impiego di ben 200 mila poliziotti in tutto il paese per garantire la sicurezza durante il voto. Di questi, circa 10 mila saranno dispiegati solo a Bangkok.

Teoricamente allo stesso scopo, anche le Forze Armate hanno fatto sapere di volere aumentare il contingente di soldati nella capitale e nei dintorni. Un portavoce dell’esercito ha detto giovedì alla Reuters che 5 mila militari sono già nelle strade e il loro compito, così come quello degli altri che si aggiungeranno da qui a domenica, sarà quello di impedire episodi di violenza.

Nella crisi in corso, i militari continuano a mantenere una posizione defilata, appoggiando ufficialmente il voto nonostante i vertici delle Forze Armate facciano parte a tutti gli effetti delle élite thailandesi che vedono con estremo sospetto l’apparato di potere della famiglia Shinawatra. Nel 2006, d’altra parte, l’esercito depose con un colpo di stato il governo di Thaksin Shinawatra, fratello in esilio dell’attuale premier. Secondo alcuni, perciò, la massiccia presenza di soldati potrebbe preannunciare un nuovo intervento contro il governo in caso di disordini durante o dopo le elezioni.

Il muro contro muro tra le parti in lotta si è d’altra parte aggravato ulteriormente questa settimana, quando il governo ha confermato lo svolgimento del voto per il 2 febbraio, respingendo una delibera della Commissione Elettorale che consigliava un rinvio di qualche mese a causa del clima esplosivo nel paese. Per il vice primo ministro, Phongthep Thepkanjana, posticipare le elezioni avrebbe prolungato l’attuale situazione, nella quale la Thailandia risulta priva di un governo e di un parlamento con pieni poteri, con grave danno per il paese.

La premier Yingluck, in ogni caso, giovedì ha provato a mandare un segnale distensivo senza però mostrare cedimenti. Dalla sua pagina Facebook ha chiesto a tutti i thailandesi di recarsi alle urne, definendo l’appuntamento di domenica “tra i più significativi” per “determinare il futuro democratico” del paese del sud-est asiatico. Yingluck ha poi ricordato come i membri del parlamento siano i rappresentanti di tutti i thailandesi e “debbano ascoltare tutte le voci”, così che “tutti i gruppi di cittadini devono partecipare al progresso della società”.

Il voto non si prospetta comunque sotto i migliori auspici, visto che dallo scorso mese di novembre si sono contati 9 morti e circa 600 feriti negli scontri di piazza. La vittima più recente è stato un leader del movimento di protesta, denominato Comitato Popolare per la Riforma Democratica, ucciso qualche giorno fa da un colpo di arma da fuoco mentre stava tenendo un discorso pubblico nella capitale.

Alle elezioni, inoltre, non prenderà parte il Partito Democratico di opposizione che ha deciso di boicottare il voto dopo che le dimissioni di massa dei suoi parlamentari avevano costretto la premier Yingluck a sciogliere anticipatamente il parlamento nel mese di dicembre.

Il Partito Democratico appoggia, sia pure non direttamente, i manifestanti anti-governativi, i quali chiedono le dimissioni immediate del governo, la cancellazione del voto anticipato e la creazione di un “consiglio del popolo” non elettivo, formato presumibilmente da esponenti del potere giudiziario, degli ambienti reali e dei vertici militari, che nomini un nuovo esecutivo per “riformare” il sistema politico.

L’opposizione che chiede la rimozione del governo è composta in larga misura dalla borghesia della capitale e da sostenitori del Partito Democratico provenienti dal sud del paese, il cui obiettivo dichiarato è quello di estirpare l’influenza del clan Shinawatra dalla politica thailandese. L’ex premier Thaksin e la sorella Yingluck hanno infatti presieduto alla creazione di un sistema di potere fondato sul sostegno delle classi più povere ed emarginate delle aree rurali settentrionali attraverso limitate riforme sociali, minacciando il controllo delle leve di comando tradizionalmente nelle mani degli ambienti filo-monarchici.

La situazione di stallo è vista tuttavia da molti con apprensione crescente, soprattutto dal business thailandese che sta vedendo fuggire i capitali stranieri dal paese e ridurre drasticamente l’arrivo di turisti. Il persistere dello scontro o un’eventuale colpo di mano dei militari peggiorerebbe poi ancor più la situazione, provocando il probabile intervento dei sostenitori del governo, le cosiddette “camicie rosse”, pronte alla mobilitazione in caso di necessità.

Come ha minacciosamente affermato giovedì al britannico Daily Telegraph un leader delle “camicie rosse” in una provincia nel nord della Thailandia, quella in corso “è già una guerra anche se finora senza armi”. A suo dire, però, “se dovesse esserci un colpo di stato, oppure se le elezioni non avranno luogo, allora diventerà senza dubbio una guerra armata”.

Se anche il voto dovesse andare in porto senza eccessive difficoltà, le prospettive non appaiono confortanti. Tanto per cominciare, alcune circoscrizioni elettorali non avranno alcun candidato a causa degli ostacoli posti alla loro registrazione nelle scorse settimane dalle manifestazioni di protesta. Ciò determinerà quasi certamente una paralisi nel periodo post-elettorale, poiché la Costituzione thailandese prevede che il voto, per essere valido, debba coprire almeno il 95% dei seggi del parlamento. La Commissione Elettorale ha perciò già fatto sapere che si dovranno tenere elezioni speciali per assegnare i seggi mancanti e che queste operazioni potrebbero richiedere fino a quattro mesi.

Sul governo pesa poi l’ipotesi di un nuovo colpo di stato “giudiziario” sulla scia di quello del 2008, quando un tribunale depose di fatto un gabinetto guidato dai sostenitori di Thaksin. La sospensione dei parlamentari del partito di governo - Pheu Thai - o la dissoluzione del partito stesso rimane un’ipotesi reale, come confermano i procedimenti legali avviati a partire dall’inizio della crisi.

In particolare, 308 deputati di maggioranza sono indagati dalla Corte Suprema per avere presentato una modifica alla Costituzione - successivamente giudicata illegale - volta a rendere interamente elettivo il Senato thailandese. Più recentemente, inoltre, il governo è finito sotto accusa per la pessima gestione di un costoso programma di sussidi destinati ai produttori di riso nel nord del paese.

Qualche osservatore, infine, contempla però anche la possibilità che le tensioni possano scemare dopo un voto che il partito di Yingluck vincerà agevolmente. A far pensare una soluzione di questo genere sono soprattutto i timori per un aggravamento dello scontro in caso di un coinvolgimento dei sostenitori del governo e l’atteggiamento fin qui cauto dei militari, l’unica forza in grado di imprimere una svolta alla situazione.

Lo stesso ex premier e leader dell’opposizione politica, Abhisit Vejjajiva, ha d’altra parte abbassato in qualche modo i toni in questi giorni, rifiutandosi di lanciare appelli all’astensione in vista di domenica e di rivelare se egli stesso si recherà alle urne. Le parole di Abhisit sono giunte dopo un incontro con l’ambasciatrice USA a Bangkok, Kristie Kenney, rappresentante di un governo, come quello di Washington, che nel decennio scorso ha trovato in Thaksin un partner affidabile in molti ambiti, a cominciare da quello della “guerra al terrore”.

Per coloro che intravedono una soluzione relativamente pacifica, perciò, il dopo-voto potrebbe riservare un accordo più o meno tacito tra il clan Shinawatra e l’establishment tradizionale, come già accadde in seguito al trionfo elettorale del partito Pheu Thai nel 2011. In questo caso, Yingluck potrebbe continuare a governare in cambio di una serie di “riforme” gradite all’opposizione e, soprattutto, della rinuncia ai tentativi di riportare in patria il fratello Thaksin, dopo che proprio un’amnistia a suo favore per annullare una sentenza di condanna per corruzione e abuso di potere aveva innescato il nuovo round di proteste che continua a scuotere la Thailandia.

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