Quando il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) si dice preoccupato per il tasso di disoccupazione dovremmo tutti cominciare a esser davvero inquieti. Non perché sia sensato credere alla loro “preoccupazione”, ma per la nostra miseria: di solito, infatti, si danno molto da fare per aumentarcela. E ci riescono anche bene...
Se è così, allora, per quale motivo Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, denunciando i quasi 20 milioni di disoccupati nel Vecchio Continente, sale sul palco degli “allarmisti”?
I toni della signora che Sarkozy volle ministro dell'economia, fin quando l'incontinenza di Strauss-Kahn non liberò la poltrona che ora madame occupa, sono quasi commoventi: '"Mi preoccupa che quasi un quarto dei giovani europei under-25 non riesca a trovare un lavoro. In Italia e Portogallo più di un terzo dei giovani sotto i 25 anni è disoccupato. E in Spagna e Grecia sono più della metà. Fino a che gli effetti sul lavoro non saranno invertiti, non possiamo dire che la crisi è finita. Quando la disoccupazione è alta la crescita è lenta perché la gente consuma meno e le aziende investono e assumono meno''.
La strada più efficace – sempre in ambito capitalistico, sia chiaro – per rafforzare l'occupazione sarebbe la crescita. Secondo alcune stime, un punto percentuale di crescita in più nelle economie avanzate ridurrebbe la disoccupazione di mezzo punto percentuale (tenete sempre a mente la relazione asimmetrica tra percentuali di crescita della ricchezza e aumento dell'occupazione); in pratica fa tornare al lavoro 4 milioni di persone.
Ma cosa propone il Fmi per realizzare questo – modesto – obiettivo?
In Europa “per rilanciare la crescita è necessario che famiglie, aziende e governi riducano gli elevati livelli di debito”. Non fatevi cadere le braccia. Anzi, tenetele alte per ripararvi dai colpi in arrivo e magari per distribuire qualche schiaffone a chi vi racconta panzane simili...
''Il debito pubblico deve calare, spiega la gelida Lagarde. In un contesto di bassa crescita, il trucco è muoversi gradualmente fino a che il mercato lo consente con politiche ancorate all'impegno di un risanamento fiscale sostenuto a un ritmo ragionevole nel medio termine. Il risanamento, inoltre, dovrebbe essere visto come un'occasione per rendere il budget più orientato alla crescita''. Che una persona in quella posizione si metta a parlare di “trucchi”, come se il mercato fosse popolato di beoti anziché di lupi, la dice lunga sul collasso mentale e di visione che ha colpito i più potenti organismi internazionali. Senza più idee, ma con l'obbligo di far crescere il bottino del capitale finanziario.
Ma cosa ha visto Lagarde, in questi giorni, che abbia prodotto tanta ipocrita preoccupazione? Ha visto crollare le borse dei “paesi emergenti”, che hanno trascinato con sé anche quelle europee e asiatiche. E ha visto crescere il timore che stia per esplodere un'altra fase critica globale prima ancora che siano stati smaltiti gli effetti della precedente (iniziata quasi sette anni fa e ancora pienamente in corso).
Andiamo con ordine. Negli ultimi mesi – è la notizia meno pubblicizzata sulla stampa specializzata – sono stati ritirati circa 500 miliardi di dollari dai cosiddetti “paesi emergenti”. Un salasso di investimenti notevole, che richiede qualche spiegazione su origine del flusso e del riflusso.
Si sa infatti che questi paesi – oltre alla Cina, India, Brasile, Sudafrica, Turchia, Argentina, ecc – hanno fatto da “traino” per l'economia globale proprio mentre l'occidente sviluppato e il Giappone avvertivano il grande gelo della recessione prima, della stagnazione poi e della deflazione ora. Come avevano fatto a crescere così tanto? Grazie a salari decisamente bassi e alle “iniezioni di liquidità” della Federal Reserve statunitense, oltre che della banca centrale britannica e di quella giapponese.
Si capisce il lato salariale (vedi il caso Electrolux in Italia), ma che c'entrano le iniezioni di liquidità occidentali? Qui casca l'asino. Quelle immense “donazioni” di denaro fresco a banche e investitori istituzionali dovevano servire a migliorare lo stato patrimoniale delle grandi banche e a favorire l'erogazione del credito alle imprese “nazionali”. Ma solo in piccola parte – come sappiamo – hanno preso questa destinazione. Quantità molto più elevate di denaro sono invece state spedite nei paesi emergenti, a finanziare una “produzione reale” molto più profittevole di quella praticabile nei paesi già sviluppati (alte tasse, salari più “corposi”, ecc).
Bene. Ma perché sono tornati indietro, in questi mesi? Perché sia la Federal Reserve, che la BoE inglese e la BoJ giapponese hanno prima annunciato e poi iniziato a praticare il “tapering”, ossia una riduzione degli “stimoli monetari” all'economia. Marcia indietro, dunque, dai mercati reali e dalle monete degli “emergenti”. Gli “investitori professionali” – banche d'affari, fondi di investimento, gruppi assicurativi globali, ecc – sono tornati prima all'azionariato “casalingo (Wall Street e Londra, soprattutto) e ai titoli di stato “forti”, ma anche alle monete (l'unico motivo per cui il dollaro regge ancora è, non troppo paradossalmente, la sua enorme diffusione... fondata sulla “credibilità” dell'esercito Usa).
Una furbata da speculatori accorti? Sì e no. Stanno segando il ramo su cui sono seduti, ognuno scommettendo sulla propria individuale capacità di abbandonarlo prima che si spezzi. Ogni tanto qualcuno sbaglia valutazione e finisce schiantato al suolo (Beran Strens, Lehammn Brothers, Merrill Lynch sono solo i più famosi). Ci saranno di nuovo morti e feriti anche sulle borse “regine”. Ma intanto è iniziata la strage degli “emergenti”.
Ieri sera la banca centrale di Ankara ha reso noto che stanotte terrà una riunione straordinaria sulla debacle della lira turca. Non pesa qui solo il “tapering”, ma anche l'instabilità politica creata dallo scandalo corruzione scoppiato lo scorso dicembre, che ha messo in dubbio l'effettiva capacità del governo del premier Recep Tayyip Erdogan di governare la crisi economica turca e di tenere a freno la crescente opposizione popolare.
L'Argentina ha di fatto fissato “la trincea” del cambio intorno al valore di otto pesos per dollaro; ma al mercato nero interno si scambia anche a 13, in questi giorni. La presidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner, a Cuba per colloqui di stato, ha denunciato "pressioni speculative" contro le monete dei Paesi emergenti. «Sembra che qualcuno voglia farci mangiare di nuovo la stessa minestra, questa volta con una forchetta. Chi? Sempre gli stessi». E tutti hanno capito: le banche e i grandi gruppi economici multinazionali.
Che dalla disoccupazione europea non vedono sorgere alcuna preoccupazione. Anzi, per loro è una “risorsa”, naturalmente ai fini della “crescita”. Del loro portafoglio, chiaro...
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