Il governo iracheno ha deciso la chiusura del famigerato carcere di
Abu Ghraib, simbolo della violazione di ogni diritto umano e luogo di
torture sia durante il regime di Saddam Hussein sia durante
l’occupazione statunitense dell’Iraq.
La chiusura di quella che oggi è chiamata Prigione centrale di Bagdad
è stata ordinata dal ministero della Giustizia per ragioni di
sicurezza, legate all’evasione in massa di detenuti avvenuta l’anno
scorso durante un attacco degli islamisti dello Stato islamico dell’Iraq
e del Levante (Isil). Il Paese è il teatro di uno scontro
settario, tra gli sciiti saliti al potere dopo la fine del regime
baathista e i sunniti che lamentano discriminazioni e vessazioni, che
sta gettando l’Iraq sull’orlo della guerra civile.
Il Paese è in parte occupato da milizie jihadiste che dallo scorso
dicembre controllano la provincia occidentale dell’Anbar, roccaforte
sunnita e luogo dove sono iniziati i movimenti di opposizione al governo
sciita, repressi nel sangue. In queste zone è in corso un sanguinoso
scontro tra milizie e truppe governative che sta facendo decine di morti
anche tra la popolazione civile. Vittime che si aggiungono ai 2.400 morti dall’inizio dell’anno negli attentati quasi quotidiani che scuotono le città irachene. Oggi almeno 55 persone sono state uccise e oltre quaranta sono rimaste ferite in una serie di attacchi in tutto il Paese.
Intanto, Bagdad ha iniziato il trasferimento dei circa 2.400
detenuti di Abu Ghraib, tutti sospettati di attività terroristiche. La
prigione si trova in un’area piuttosto insicura, tra la capitale e la
città di Falluja che è nelle mani dei miliziani anti-governativi.
Nelle celle di questo carcere noto per le violenze e le torture che vi
sono state commesse, durante il regime di Saddam Hussein morirono almeno
4.000 persone. Durante l’occupazione statunitense, dopo l’invasione del
2003, Abu Ghraib divenne il simbolo degli abusi dell’esercito di
Washington. Le foto dei marines che umiliavano e brutalizzavano i
detenuti fecero il giro del mondo, scatenando indignazione e condanna.
La chiusura di una delle prigioni più note al mondo arriva a pochi
giorni dalle elezioni politiche, le prime da quando gli Usa si sono
ritirati dal Paese. Il 30 aprile gli iracheni sono chiamati alle
urne per eleggere il Parlamento che designerà il presidente e il primo
ministro, e il premier Nouri al Maliki pare avere la vittoria in tasca.
Il voto, però, è bagnato dal sangue di decine di iracheni ed è
segnato dalle divisioni politiche e religiose talvolta alimentate da
una campagna elettorale che punta sulle rivalità più che sul dialogo,
secondo l’inviato dell’Onu in Iraq Nikolay Mladenov, inviato speciale
delle Nazioni Unite per l’Iraq. Nell’Anbar non si voterà per questioni
di sicurezza.
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