04/06/2014
Iraq frutto mostruoso della follia americana e della famiglia Bush
A un mese dalle elezioni in Iraq il premier Nouri al-Maliki non ha ancora formato il governo e il Paese vive in un clima di guerra civile su basi confessionali e settarie. Più di 4mila vittime dall’inizio dell’anno. Auto e bombe umane, tra loro kamikaze handicappati costretti ad immolarsi.
Vince ma nessuno lo vuole. E’ il Presidente Maliki con la sua Coalizione “Stato di legge” che cerca alleanze, ma finora senza risultati.
Non sono disponibili il Partito Democratico Curdo di Massoud Barzani, i Partiti sciiti Mutawin e Ahrar di Mouqtada al Sadr, le opposizioni sunnite e laiche di Iraqiya e United Bloc.
Partiti che assieme avrebbero i numeri per aggiudicarsi la maggioranza con 180 seggi su 328.
Il Premier può contare solo sull’appoggio del Patriotic Union of Kurdistan, Al Arabiya e Solution, non sufficienti per assicurare la maggioranza anche a causa di conflittualità al loro stesso interno.
Epicentro del conflitto rimane l’area sunnita di Al Anbar, dove gli abitanti rimasti si organizzano per contrastare l’attivismo terroristico di ISIS - Stato Islamico dell’Iraq e del Levante o, più esattamente, Stato Islamico dell’Iraq e Grande Siria - ma criticano la posizione del Premier che ritengono punitiva per la componente sunnita.
Nelle province di Ramadi e Fallujah la popolazione rimasta è riparata in scuole e moschee e versa in condizioni dichiarate critiche dai responsabili di Human Rights Watch, priva com’è di alimentazione e presidi sanitari.
Gli stessi sciiti non ostili a Maliki tentano inutilmente di frenarne le campagne militari contro ISIS per limitare le conseguenti ricadute nei confronti della popolazione.
Mentre tutto questo accade in Iraq, il Presidente statunitense annuncia da West Point che la lotta al terrorismo non è terminata e cita come esempio da riprodurre, il “modello iracheno” per l’indebolimento di Al Qaeda e il patrimonio dei successi ottenuti.
In realtà il Presidente degli USA ripropone quella teoria del “caos costruttivo” utilizzata dal suo predecessore per l’attacco all’Iraq nel marzo 2003.
Teoria secondo la quale l’attrazione di formazioni ijadiste di diverse matrici nei Paesi in guerra ne determinerebbe l’indebolimento favorendo nel contempo l‘instaurazione della democrazia.
Ipotesi sconfessata dai fatti che risultano dai più recenti conflitti. A partire dalle tre guerre del Golfo: 1) Iraq – Iran nel 1980/1988; 2) Iraq-Kuwait, 1990/1991; 3) USA e U.K/Iraq, 2003/2011.
Poi le due guerre in Afghanistan, nel 1979/1989 URSS-Afghanistan e nel 2002/2014 USA-Afghanistan.
Ultimo esempio, la guerra in Libia nel marzo/ottobre 2011, Libia / USA-NATO.
Risultati di quelle guerre?
Il caso Iraq come esempio per tutti.
Nel Rapporto “Giugno 2014” pubblicato pochi giorni prima della Conferenza del Presidente Barak Obama, l’American Journal of Public Healt indica per quanto riguarda l’Iraq che “il bilancio delle vittime, per la maggior parte civili, oscilla da 124 mila a 655 mila sino a 1 milione, rivalutati ultimamente sino a 1,5 milioni”.
Altri frutti drammatici nella situazione socio-economica e di sicurezza dei Paesi coinvolti nell’ “instaurazione della democrazia”.
Ovunque è stata piena (o quasi) guerra civile e i movimenti jihadisti di diversa matrice non si sono affievoliti ma al contrario rinforzati.
Per quanto riguarda la conquista della democrazia, Afghanistan, Iraq e Libia aspettano e dovranno farlo ancora a lungo.
Per il futuro vicino dell’Iraq vale la pena di ricordare che dopo le elezioni del 2010, Al Maliki impiegò 9 mesi prima di formare un Governo.
Non sembra esistano le condizioni per risultati migliori.
Fonte
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