Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non avrebbe alcuna
intenzione di inviare una delegazione in Egitto a fine mese, quando
dovrebbe partire il secondo round dei negoziati che hanno portato al
cessate il fuoco dello scorso 26 agosto tra Israele e Hamas. È quanto
riferito dall’emittente Channel 10 e dall’agenzia stampa palestinese Ma’an.
L’accordo raggiunto al Cairo ha messo fine a 50 giorni di offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza, con il suo carico di
2.200 morti e quasi 10.000 feriti, in maggioranza tra la popolazione
civile palestinese, e 71 morti tra gli israeliani, di cui 66 militari, ma il negoziato non è affatto concluso. Sono ancora tante e rilevanti le questioni rimaste aperte e rinviate a fine settembre:
tra queste la costruzione del porto di Gaza e dell’aeroporto, la
questione dei detenuti palestinesi nelle carceri israelia1ni, la
demilitarizzazione delle fazioni presenti nella Striscia, la consegna
dei resti dei soldati israeliani caduti in battaglia. Per il momento i
palestinesi hanno ottenuto l’apertura di cinque valichi di frontiera (di
cui due saranno Erez e Kerem Shalom) per l’ingresso di materiali da
ricostruzione e aiuti umanitari ai civili. La definizione del limite di
pesca a sei miglia nautiche (gli Accordi di Oslo ne prevedevano 20) e il
suo aumento a 12 entro l’anno. Israele, infine, si è impegnato a non
compiere più omicidi mirati contro i leader delle fazioni palestinesi.
Una retromarcia del governo di Tel Aviv rischia di rendere
nullo il cessate il fuoco, ha detto Qais Abd al-Karim, della delegazione
palestinese. Tuttavia Netanyahu nell’ultima riunione di
governo a porte chiuse avrebbe riferito ai suoi ministri di non avere
alcuna intenzione di inviare una delegazione al Cairo, come stabilito
dagli accordi. Nelle ultime fasi dell’operazione militare
Margine Protettivo, che è costata allo Stato ebraico circa 1,8 miliardi
di euro, il premier ha visto precipitare il consenso di cui godeva e si è
fatto parecchi nemici nel suo stesso governo, decidendo di accettare la
tregua con la metà dei suoi ministri contraria a qualsiasi concessione.
Bibi sta dunque cercando di riguadagnare terreno agli occhi
dell’opinione pubblica israeliana ed è in questa ottica che si può
leggere anche la decisione annunciata ieri di proclamare “aree demaniali” i 400 ettari di terre tra Betlemme e Hebron, in Cisgiordania, per ampliare la colonia di Gvaot (colline).
La decisione risale a due mesi fa ed è una ritorsione per l’uccisione
lo scorso giugno in Cisgiordania di tre ragazzi ebrei da parte di una
cellula palestinese armata, risultata poi affiliata a Hamas.
Si tratta della più ampia confisca, in una sola volta, di terreni in
Cisgiordania negli ultimi 30 anni su cui sono piovute condanne da
diversi Paesi, compresi gli alleati di Washington e del Caio, e dalle
Nazioni Unite.
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