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03/10/2014

Guerra del petrolio, BCE debole, crollano le borse


Ma come? Il presidente della Bce dà il via all'acquisto di titoli spazzatura (Abs, titoli di stato greci e ciprioti, ecc.) per ripulire un po' i mercati e regalare soldi alle banche criminali, e le borse crollano?

Milano ha perso quasi il 4%, le altre piazze europee un po' meno, ma comunque tanto (Francoforte -2, Parigi quasi -3, solo New York e poi Tokyo restano indifferenti). Cos'è successo?

Conviene guardare fuori dalla reggia di Capodimonte – dove la Bce si è riunita ieri, accolta da una contestazione per molti versi entusiasmante – per provare a capire qualcosa. L'Europa, come zona economicamente rilevante, integrata, governata “saggiamente”, è in questi giorni tornata al centro dello scetticismo generale dei mercati. Colpa contemporaneamente dell'ottusità (e dell'egoismo) germanico e dello strappo francese, che ha deciso di non rispettare il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil, denunciando il surplus tedesco come causa altrettanto importante degli squilibri continentali. O anche l'Italia renziana, che dice di voler rispettare quel vincolo ma di non poter onorare le scadenze temporali del Fiscal Compact nella riduzione del debito (oltre 50 miliardi l'anno, per venti anni), perché trascinerebbe questo paese – e tutta l'Europa – in una recessione senza fine. Aggiungiamoci la stagnazione generale, la deflazioni aperta in diversi paesi, il crollo anche delle aspettative sull'economia tedesca, e il quadro comincia a esser chiaro.

La diffidenza verso l'Unione Europea e l'"efficienza" delle sue modalità di funzionamento – dal punto di vista puramente capitalistico – è così tornata ai livelli di tre anni fa, quando pochi avrebbero scommesso sulla permanenza dell'euro (quindi anche dell'Unione), e solo la sortita di Draghi (“whatever it takes”, ovvero la Bce come vero prestatore di ultima istanza, al pari della Federal Reserve) aveva arrestato il treno avviato verso il dirupo.

Stavolta non ha funzionato neanche l'avvio – tra dieci giorni – del piano di acquisto dei titoli “junk”, con limite di spesa a 1.000 miliardi di euro (il 65% del Pil annuo dell'Italia, non proprio bruscolini). È l'eurozona in quanto tale a sembrare troppo fragile. I problemi sono più grandi.

Accolta da una minore rilevanza, almeno sui media italiani, ieri c'è stata un'altra decisione con ricadute globali sconvolgenti: l'Arabia Saudita ha riaperto la guerra dei prezzi del petrolio, esattamente come 30 anni fa, ma in una situazione del tutto diversa. Di fatto, ha tagliato i prezzi per le forniture immediate sui mercati asiatici, specialmente per le qualità di greggio più ricercate (il “light”, più facile da raffinare), trascinando così al ribasso i prezzi di tutte le altre qualità (Brent, Wti, Opec, ecc). Per la prima volta da diversi anni il prezzo del barile di riferimento (il Brent) è così sceso sotto i 90 dollari; che non sono pochi, ma molti meno dei 110-120 cui ci si era ormai abituati. Sulle piazze specializzate, e nei ministeri dei paesi produttori, si preparano gli scenari per studiare le contromosse in caso di crollo del prezzo fino ai 60 dollari al barile.

È la guerra, in una situazione di crisi globale, perché pochi produttori possono reggere a lungo un calo così drastico delle entrate petrolifere. Non può farlo la Russia, sotto pressione dell'Occidente (e molti avanzano l'ipotesi – più che probabile – che l'iniziativa saudita sia stata concertata con gli Stati Uniti). Tantomeno il Venezuela, altrettanto in difficoltà economica e sotto attacco imperialista da diversi anni. Per non parlare dei produttori africani. Ma non torna a vantaggio neanche delle multinazionali statunitensi, che vedono il rischio che il prezzo scenda al di sotto dei costi industriali dello shale gas, ultima risorsa trovata per restituire agli Usa una – molto temporanea – indipendenza energetica. E dire che in questi ultimi mesi gli Stati Uniti avevano ripreso, dopo 40 anni, a esportare greggio verso altri paesi (tra cui anche l'Italia), sia pure in quantità risibili: 400.000 barili al giorno, sugli oltre 90 milioni di consumo globale quotidiano.

È una guerra che farà molti morti nel settore petrolifero, dunque. E che destabilizza un quadro economico già di suo poco allegro. È vero che questo calo dei prezzi potrebbe favorire una ripresa della produzione industriale globale e anche, teoricamente, dei consumi di massa (l'energia è l'unica merce globale che abbia un prezzo uguale per tutti ed entri nella formazione del prezzo di tutte le altre merci; l'altra – il lavoro – varia invece di prezzo da paese a paese). Ma è una proiezione solo teorica, in parte  favorevole soltanto per quei paesi – come la Cina – che continuano a “tirare”, perché è molto più probabile che contribuisca ad aggravare invece la deflazione generale dell'economia globale.

I mercati finanziari hanno davanti questo quadro, ora. E comprende anche molte altre variabili che non ci vengono più nemmeno rese note. In questo quadro, quel che può fare la Bce è ben poca cosa.

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