Il Ministro degli Interni sostiene che il governo ha avviato una battaglia contro le droghe
“per il danno che esse creano alla società e agli individui”. Christof
Heyns, inviato speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni
arbitrarie, sommarie ed extragiudiziarie, aveva chiesto a settembre una
immediata moratoria sulla pena di morte in Arabia Saudita. Secondo Heyns
i processi sono “profondamente iniqui” e agli accusati non è permesso
molte volte un avvocato. Le confessioni, inoltre, sarebbero estorte con
la tortura.
Oltre al commercio e uso di droghe, sono
puniti con la pena capitale anche lo stupro, l’omicidio, l’apostasia,
sodomia, adulterio, omosessualità, la stregoneria, la rapina a mano
armata.
Al lungo elenco dei “meritevoli” della pena di morte,
quest’anno si sono aggiunti cinque oppositori della rigida e spietata
monarchia saudita. Tra questi spicca il nome dell’attivista religioso
sciita shaykh Nimr al-Nimr. Le organizzazioni umanitarie hanno esortato
Riyad a revocare le sentenze capitali contro chi manifesta un dissenso
accusando il regime saudita di limitare la libertà di parola e di
espressione.
Nel frattempo, l’Ong Human Rights Watch ha chiesto alle autorità locali di abolire la “Corte Criminale Speciale” [che ha decretato la pena di morte per i cinque dissidenti, ndr] sottolineando
come vi siano “serie preoccupazioni per le modalità con cui avvengono i
processi e la caduta delle accuse di tortura senza alcuna
investigazione”.
Ma di fronte al grido di protesta delle organizzazioni umanitarie, tacciono i governi, l’intelligencija e la stampa occidentali, in prima linea, però, quando si devono denunciare i diritti violati o la pena capitale in Iran. L’Arabia Saudita è uno stretto alleato di Washington e fa affari con l’Unione Europea. E’, inoltre, uno dei cinque paesi arabi che sta prendendo parte alla coalizione anti-Isil (Stato Islamico di Iraq e Levante). Una missione nata per sconfiggere gli islamisti “tagliagola”. Quale miglior alleato se non quello leader mondiale delle decapitazioni?
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