Nel mese di novembre l’Isis (o se preferite, il Califfato) ha annunciato
la comparsa della sua moneta ufficiale, che riprende la denominazione
dell’antica moneta araba, il Dinaro (donde il nostro termine “denaro”).
Come quella, sarà una moneta non
cartacea, in sette tagli di oro, argento e rame (o forse bronzo), il cui
valore equivarrà, nel taglio massimo (5 dinari, pari a 21,25 grammi
oro), a 694 dollari o 640 euro attuali, e, nel taglio minimo (10
centesimi per 10 grammi di rame), a 7 centesimi di dollaro o 5 centesimi
di euro.
Non c’è dubbio che l’operazione ha un indubbio valore simbolico,
volendo significare che l’Isis ha tutte le intenzioni di mettere radici
come stato in piena regola, dotato anche di una sua moneta. Ma perché
una monetazione solo metallica (e di metallo prezioso) e non cartacea o
di metallo vile? E’ stato spiegato dagli stessi jihadisti che in questo
modo vogliono affrancare il mondo islamico dalla moneta di Statana (il
dollaro) e tornare alla purezza islamica delle origini, quando le monete
erano solo d’oro o d’argento. Dunque, una sorta di ritorno al gold
standard, quando il valore della moneta – anche cartacea – corrispondeva
alla quantità di oro o argento posseduta dalla banca di emissione. E con
ciò anche una mossa di contrasto alle tendenze monetarie.
Infatti, a partire dalla denuncia degli
accordi di Bretton woods, nel 1971, il denaro è andato via via
affrancandosi dalla sua base metallica e, con la comparsa delle carte di
credito, lo stesso contante cartaceo tende a scomparire, sostituito
dall’attuale denaro bancario che, di fatto, soppianta quello statale.
Dunque tendenze dalla smaterializzazione del denaro che diventa
un’astratta capacità di spesa corrispondente da una cifra segnata su un
conto bancario. Rispetto a queste tendenze l’Isis propone il ritorno
alla rude “concretezza” di un denaro-oggetto, che ha un valore
intrinseco.
Ma che probabilità ha di imporsi sul mercato questa moneta?
Quasi nessuna come reale moneta di scambio. Sul mercato internazionale,
non essendo riconosciuto il Califfato da nessun altro Stato, la moneta
non sarà convertibile ed, al massimo potrà servire a qualche transazione
con gli analoghi “stati di fatto” in Nigeria e Libia, sempre che ciò
realmente accada. Sul piano interno è assai dubbio che essa inizi effettivamente a circolare per la difficoltà di disporre del metallo
necessario.
Il problema non si pone tanto per l’oro:
difficilmente una moneta equivalente a circa 700 dollari sarà in
possesso e spesa fra i sudditi del Califfato se non per particolarissime
transazioni per le quali basterebbe un numero limitato di pezzi per i
quali l’Isis avrebbe l’oro necessario. In fondo, anche a noi quante
banconote da 500 euro è capitato di vedere ed usare in 11 anni di vita
dell’euro? Qualche problema in più potrebbe esserci per l’argento, ma i
problemi peggiori ci sarebbero per il rame: calcolando che la
popolazione del Califfato possa aggirarsi sui 4 milioni di persone
(calcolo molto approssimativo a causa della mobilità dei confini e delle
fughe di massa in atto) ipotizziamo, molto prudenzialmente, una massa
di circolante pari a circa 200 milioni di euro (circa 800 euro pro
capite). E’ logico che la moneta più diffusa, per gli scambi quotidiani,
sarebbe quella in rame di taglio minimo.
Considerando che, per fare 12.800 monete
di rame da 10 centesimi, per arrivare a 5 dinari, occorrerebbero 128
chili di rame per produrle. Dunque, per produrre l’equivalente della
metà del circolante necessario, 100 milioni di euro, pari a 156.250
monete da 5 dinar, occorrerebbe coniare circa 2 milioni di pezzi, pari a
20 t di rame da procurarsi e far passare attraverso le frontiere, cosa
decisamente non semplice. E resta il problema del resto della
monetazione, senza calcolare che, una eventuale estensione del
territorio – come sperano gli jihadisti – o un aumento della popolazione
renderebbe del tutto insufficiente questa massa di circolante. E senza
calcolare i problemi di conio e distribuzione della moneta.
Dunque anche sul mercato interno è del tutto discutibile che la moneta entri realmente in circolazione. Dunque, solo propaganda?
Non necessariamente. L’operazione,
infatti, potrebbe rivelarsi un clamoroso affare per gli jihadisti del
Califfato che, sin qui, hanno dimostrato di avere buon fiuto per gli
affari. La moneta, proprio per la sua rarità potrebbe diventare assai
appetita da collezionisti disposta a pagarla ben più del suo valore
facciale. E, nel momento in cui il Califfato dovesse essere debellato da
forze armate ostili, il valore del dinaro potrebbe aumentare
sensibilmente. Calcoli difficili da fare, perché non sappiamo quante
monete conierà il Califfato e tantomeno come sarà certificata
l’effettiva emissione, tuttavia ci sarebbe sempre il valore intrinseco
del metallo ad incoraggiare l’investimento. Nel giro di alcuni anni, il
possesso di una discreta quantità di oro monetato dall’Isis potrebbe
addirittura entrare nell’asset di enti finanziari ed, in ogni caso,
sarebbe anche un’ottima moneta di scambio per la criminalità
organizzata. Dunque, il Califfato ha ottime possibilità di coniare una
certa quantità di oro per rivenderlo a prezzi sensibilmente superiori,
magari del 60-70 o anche 100%.
E qualche opportuno accordo con la
grande criminalità organizzata (se non anche con la “finanza grigia”)
potrebbe risolvere il problema della sua diffusione.
Un ottimo affare, non c’è dubbio.
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