di Michele Giorgio
Il politologo palestinese Talal Okal ascolta le nostre domande. Poi ci risponde che in Palestina, come sempre, il problema non è valle ma a monte.
«Gli appelli al boicottaggio dell’economia israeliana sono giustificati
dall’occupazione della nostra terra che continua dopo decenni».
Tuttavia, ci ricorda, «gli Accordi di Oslo firmati nel 1993 e quelli
successivi mettono nelle mani di Israele tutta l’economia palestinese.
Non credo che riusciremo a fare scelte davvero indipendenti sino a
quando questi accordi rimarranno in vigore». Okal si riferisce
al recente contratto da 1,2 miliardi di dollari per la fornitura
ventennale all’Autorità nazionale palestinese (Anp) di gas israeliano.
Contratto che sta suscitando una ondata di proteste in casa palestinese.
La scorsa settimana intellettuali, rappresentanti di forze politiche
dell’opposizione e attivisti della campagna Bds (Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni), tra i quali Omar Barghouti, hanno tenuto un
incontro pubblico per denunciare l’accordo e per chiedere che l’Anp
segua la strada della Giordania. Qualche settimana fa Amman ha
sospeso le trattative con due compagnie, l’americana Noble Energy e
l’israeliana Delek, per l’acquisto da Tel Aviv del gas proveniente dal
ricco giacimento sottomarino “Leviatano”. «Il popolo
palestinese non deve piegarsi ad un contratto capestro, a favore di una
parte e a discapito di un’altra – afferma la deputata Khalida Jarrar del
Fronte popolare per la liberazione della Palestina – Non
dobbiamo normalizzare l’occupazione israeliana, piuttosto dobbiamo
liberarci di tutte le forme dell’occupazione». È tutto a posto invece
per la Delek che ripete che le intese tra Israele e Anp
porteranno “benessere” ai palestinesi, poiché prevedono la costruzione
nella città cisgiordana di Jenin dell’impianto che riceverà il gas
israeliano.
In questi giorni di forti polemiche interne, alcuni ricordano
che Israele ha bloccato centinaia di milioni di dollari palestinesi
come rappresaglia per la decisione della leadership dell’Olp di chiedere
l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale. Altri
sottolineano che i palestinesi posseggono un giacimento sottomarino di
gas naturale, ad un trentina di chilometri dalla costa di Gaza, ma non
riescono a sfruttarlo a causa delle condizioni imposte da Israele.
E secondo l’agenzia governativa statunitense “Geological Survey”, altri
giacimenti di gas e di petrolio si troverebbero sulla terraferma in
Cisgiordania e ancora a Gaza. Le esplorazioni però non sono consentite ai palestinesi. Nel 2013, ad esempio, la “Givot Olam”, una società petrolifera israeliana, comunicò che il pozzo “Meged 5″,
presso Rosh Hayin, a cavallo tra Israele e Cisgiordania, ha riserve di
greggio ampiamente superiori a quelle stimate in passato. Tanti
palestinesi in quell’occasione sottolinearono che l’area del “Meged 5″
interessa anche la Cisgiordania. Il pozzo infatti si estende su
una zona tra i 125 e 250 kmq, quindi anche in territorio palestinese.
Tuttavia il controllo esclusivo che Israele mantiene, 21 anni dopo la
firma degli Accordi “transitori” di Oslo, sulla «Area C» della
Cisgiordania (60% del territorio occupato dal 1967) non consente ai
palestinesi l’accesso alla zona del “Meged 5″.
Lo stesso accade per il giacimento di gas sottomarino, una miniera
d’oro per la Striscia di Gaza dove regna la disoccupazione a causa anche,
se non soprattutto, del blocco attuato da Israele e dall’Egitto.
Nel 1999 l’allora presidente palestinese Yasser Arafat con un contratto
affidò lo sfruttamento del giacimento a un consorzio composto dalla
compagnia privata Consolidated Contractors International Company (di
proprietà delle famiglie libanesi Sabbagh e Khoury), alla British Gas
Group e al Fondo per gli Investimenti Palestinesi. Il consorzio eseguì la perforazione di due pozzi – Gaza Marine 1 e Gaza Marine 2
– ma da allora non sono mai stati sfruttati. Secondo Tel Aviv non
esistendo ufficialmente uno Stato palestinese ed acque territoriali
palestinesi, il gas di Gaza deve essere commercializzato da compagnie
israeliane. A complicare le cose è stato anche un “intervento” del
pessimo ex premier britannico Tony Blair, in qualità di
inviato del «Quartetto per il Medio Oriente» (Usa, Russia, Onu e Ue).
Grazie alla sua “mediazione” e alla debolezza dell’Anp, i tre quarti
degli introiti del gas sono stati tolti ai palestinesi e il giacimento
di fatto è stato messo sotto il controllo Israele. Hamas, vincitore
delle elezioni del 2006, però ha bloccato l’accordo definendolo un
furto. L’anno successivo Israele ha annunciato che il gas non può essere estratto, almeno sino a quando Hamas sarà al potere.
Il fatto che la Palestina nel 2012 sia stata riconosciuta dall’Onu
Stato non membro non ha cambiato nulla. Israele ribadisce le sue
condizioni. E non hanno avuto alcun esito pratico i colloqui di un anno
fa tra il leader dell’Anp Abu Mazen e il presidente russo Putin volti,
secondo l’agenzia Itar-Tass, ad affidare alla Gazprom lo sfruttamento
del giacimento del gas di Gaza e alla società, sempre russa,
Technopromexport, la partecipazione alla costruzione di un impianto
termoelettrico vicino Ramallah. Secondo alcuni l’offensiva
militare israeliana “Margine Protettivo” della scorsa estate contro Gaza
avrebbe avuto tra i suoi scopi anche quello di impedire l’arrivo di
importanti imprese russe in Palestina.
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