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28/02/2015

La lotta alla corruzione del Pcc


C’è molta curiosità in Occidente sulla lotta alla corruzione che si è scatenata in Cina da circa un anno. Date le dimensioni del tutto insolite del fenomeno (180.000 funzionari sotto procedimento già a settembre, nel frattempo già saliti ben oltre i 200.000), ci si è sbizzarriti per capire cosa stia succedendo: c’è chi parla di ritorno ai metodi della rivoluzione culturale e di regressione della Cina all’epoca maoista, chi, al contrario, sottolinea il nesso con il dibattito sullo “stato di Diritto” e, quindi, sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, chi della consueta lotta fra fazioni del partito e chi, invece, pensa a una semplice manovra diversiva per distrarre l’attenzione dai crescenti problemi sociali del paese.

Ragionevolmente c’è qualcosa di vero in ciascuna di queste idee, ma la vicenda sembra andare ben oltre questi limiti. Carl Minzer che, nel numero di settembre di “Esat Asia Forum”, mette la campagna in relazione alle riflessioni di Xi Jinping sulle primavere arabe nella quali decisivo sarebbe stato l’indebolimento del partito dominante. In effetti, nei discorsi dell’ultimo anno, il capo del Pcc ha manifestato una crescente enfasi sul ruolo del partito come guida politica della nazione e pietra angolare del sistema. E la corruzione dei funzionari del partito, delle amministrazioni e dell’esercito è vista come un tarlo che sta erodendo dall’interno il partito, favorendone la disgregazione in una miriade di comitati d’affari e distruggendone la legittimazione agli occhi delle masse.

Torna, a questo proposito, la nozione maoista di “linea di massa” destinata a ristabilire un rapporto fiduciario fra il partito e la popolazione proprio attraverso una lotta alla corruzione che colpisca senza riguardi per la posizione nella gerarchia. E, in effetti, i nomi eccellenti non mancano: da Zhou Yongkang, già potentissimo capo degli apparati di Pubblica sicurezza, a Xu Caihou, già numero due dell’Armata Popolare di Liberazione, sino a tre mesi fa. La storia cinese ricorda molti casi in cui l’Imperatore guadagna l’amore del suo popolo colpendo i mandarini corrotti, sino ai più alti livelli.

Da questo punto di vista, acquista peso l’accento posto sullo stato di diritto, ma non è detto che l’espressione “yifazhiguo” sia l’esatto equivalente del nostro “governo della legge”. Per noi, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge comporta anche l’unicità della giurisdizione davanti a cui comparire e non ci sono giurisdizioni speciali (salvo l’Alta Corte di Giustizia); invece, in Cina un membro del partito può essere giudicato dai tribunali ordinari solo dopo che gli organi disciplinari del partito glielo abbiano consegnato (ed a ciò segue infallibilmente una condanna). Un po’ come accadeva per la competenza dell’Inquisizione per il clero. Xi Jinping non sembra avere alcuna intenzione di dismettere questa prerogativa del partito, anzi sembra che intenda ribadire la centralità del partito nel sistema.

Il punto è che la campagna sullo stato di diritto è rivolta soprattutto contro gli arbitri delle corti periferiche, più condizionabili dal potere politico locale. L’operazione è quindi quella di una centralizzazione che sia massima influenza al vertice del partito.

Xi Jinping si trova a fare i conti con tendenze sociali fortemente divaricanti: la spinta autonomistica delle periferie (Xjiniang, Tibet, Hong Kong, in una certa misura Manciuria), la pressione dalle campagne, il malessere del ceto medio urbano, le rivendicazioni salariali operaie, le tendenze dell’apparato a disgregarsi in comitati d’affari ecc. Ed in tutto questo, il problema più spinoso  è quello delle diseguaglianze sociali ormai insostenibili: in Cina i valori di indice Gini (il metodo più generalmente condiviso per misurare le diseguaglianze di reddito e di ricchezza) sono superiori anche agli Usa e sono fra i maggiori del mondo. Trentacinque anni di crescita continua hanno enormemente arricchito la Cina, ma questa crescita ha premiato solo i super ricchi, mentre gli altri hanno dovuto accontentarsi delle briciole e, talvolta, neanche di quelle.*

Oggi, da parte dei ceti bassi e medi, ci sono aspettative di suddivisione della ricchezza prodotta che non possono più essere rinviate. Per oltre trenta anni, il governo di Pechino ha tollerato condizioni salariali terribili, la pirateria, i traffici delle Triadi e la corruzione dilagante nel Partito e nello Stato, e ciò per realizzare "l’accumulazione originaria” necessaria al decollo (esattamente come avvenne in lnghilterra nel XVII e XVIII secolo). Non c’è dubbio che la manovra sia sostanzialmente riuscita, facendo dell’economia cinese la seconda del mondo. Tutto questo ha comportato la nascita di un robusto ceto di neo arricchiti venuti dal nulla: si parla circa 4 milioni di multimilionari cinesi - in dollari -, quadruplicati in poco più di un decennio. In un paese in cui non esistono patrimoni ereditati e c’è una divisione relativamente uguale tra terre agricole e habitat privato, il modo più sicuro per creare in breve grandi patrimoni è l’illegalità (corruzione in primo luogo). E così, il “partito dell’accumulazione originaria” è stato la risorsa della Cina del “trentennio glorioso”, ma oggi la risorsa sta diventando il problema: la nascita di una così robusta fascia sociale di miliardari genera, dall’interno della burocrazia, una nuova classe che si contrappone ad essa. Certe condizioni subite per anni oggi sembrano intollerabili. Ad esempio, gli imprenditori cinesi che esportano, debbono poi cambiare i loro dollari ed euro in yuan, per pagare i loro operai e fornitori, ma al cambio subiscono un prelievo del 15% per diritti di signoraggio ed è evidente che questo decurta molto sensibilmente i loro profitti. E, per evitare questo prelievo, si è andato formando un “mercato nero dei cambi” dietro cui non è difficile scorgere l’ombra delle triadi.

Ma ai “nuovi ricchi” non bastano più i profitti realizzati: vogliono una trasformazione piena del sistema in senso capitalistico, superando la fase di capitalismo di Stato (o, se preferite “collettivismo burocratico di Stato”) che ha caratterizzato la Cina di questo tentennio. E questo postula la sostituzione al potere della classica burocrazia di partito.

E’ evidente che si sta producendo una spaccatura feroce nel gruppo dirigente, che va al di là delle consuete lotte di corrente e configura un vero e proprio conflitto di classe trasversale alle componenti tradizionali: fra gli inquisiti, anche di alto rango, ci sono molti uomini del clan di Shanghai (il gruppo che aveva il suo punto di riferimento in Jiang Zemin), ma non mancano neppure dei tuanpai (la corrente di Hu Jintao e di Li Kequiang) e neppure “principi rossi” (corrente da cui proviene lo stesso Xi Jinping). A questo giro di vite, i settori colpiti (soprattutto i funzionari corrotti) stanno reagendo con una sorta di “sciopero dei capitali”: la Banca Mondiale segnala che oltre 5 milioni di nuovi ricchi cinesi stanno cercando rifugio presso le banche occidentali per i loro capitali. Il che, sarebbe un colpo durissimo per l’economia cinese. Una conferma indiretta viene dalla campagna del partito contro i “funzionari nudi”, quelli che mandano moglie, figli e capitali all’estero, sperando di non essere scoperti e che, se individuati, spesso si suicidano, perché la legge cinese proibisce di proseguire ogni forma di processo nei confronti dei defunti, per cui, la famiglia salva il capitale. Puntuale si sta profilando la reazione: modificare la legge per recuperare i capitali. E non si tratta solo di misure legali: da alcune settimane circola la notizia di circa 250 casi di milionari cinesi fuggiti all’etero e “rimpatriati” dai servizi cinesi con vere e proprie extraordinary redditions.

Dal vulcano Cina si percepiscono minacciosi brontolii che lasciano presagire una possibile prossima grande eruzione.**

(Articolo apparso su Il Venerdì di Repubblica di alcune settimane fa).

Fonte

* al solito il nodo è sempre lo stesso: il socialismo è reale solo sui testi filosofici ed economici.

** e magari una bolla economico-finanziaria, capace d'infliggere il definitivo colpo di grazia ad un 30ennio di globalizzazione finanziarizzata, con tutto quello che d'infauso può conseguire.

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