Si può dire che il lavoro
rappresenti una delle principali dimensioni dell’esistenza umana, e in
un certo senso è quella che rende possibile tutte le altre, perché permette la sopravvivenza e la riproduzione continua del proprio stile di vita. Il lavoro è l’attività con cui ciascuno si procura le cose che gli servono per vivere.
Tuttavia, oggi come oggi, la maggior parte dei lavoratori è messa male:
lavora tanto, guadagna poco e spreca il “tempo libero” in attività
futili che in diversi casi rendono ancora più infelici. Un esempio su
tutti, il peggiore: il gioco d’azzardo compulsivo. Basta fermarsi un
quarto d’ora in un bar con la ricevitoria del lotto e un paio di
videopoker per rendersene conto.
Lo scarto fra le
incredibili possibilità che ci fornirebbe lo sviluppo tecnico e
industriale e la miseria della vita di buona parte delle persone sembra
spaventoso a chi si ferma un attimo a riflettere: in Italia come
altrove, i lavoratori sono costretti in condizioni sempre più umilianti,
con il passare del tempo e delle generazioni. Se coloro che oggi
orbitano intorno alla soglia dei trent’anni non sono riusciti a
riprodurre la ricchezza dei propri genitori (che comunque erano
sfruttati) i ventenni hanno ormai lasciato ogni speranza, manco fossero entrati nell’Inferno dantesco, tutti persi fra tirocini, stage non retribuiti, contratti a nero, precariato diffuso o pura e semplice inoccupazione (ovvero il non essere mai riusciti a trovare un lavoro).
Mancano i soldi perché c’è la crisi.
Questo è il mantra che ci ripetono. Ma la crisi significa solo che chi
fa i veri soldi, per continuare a farli, deve impoverire il resto della
popolazione. Basta guardarsi la recente puntata di Presadiretta,
intitolata Ricchi e poveri, per capirlo. E si tratta di Rai Tre, non di qualche piccolo sito di informazione antagonista. Mentre i più ricchi si arricchiscono sempre di più
e vivono, come si diceva un tempo, nella bambagia, la capitale
industriale del nord Italia, Torino, sta scivolando nella miseria: gli
operai vanno a casa, i piccoli commercianti falliscono e si rivolgono
alla Caritas, i bambini non hanno più accesso ad una sana nutrizione.
Il problema è a monte,
ma nessuno osa dirlo: si tratta del modo in cui è organizzata la
società e, in particolare, quello in cui i beni di cui necessitiamo per
vivere vengono prodotti e distribuiti. Non si tratta di questa o quella
scelta politica, né di investire di più in un settore piuttosto che in
un altro; si tratta del fatto che l’intero corpo sociale viene piegato ad un unico interesse: il profitto.
Davanti a questo imperativo, a questo dovere morale, tutto il resto è
secondario, il benessere della popolazione, la salute, l’ambiente, le
relazioni affettive, la dignità del proprio mestiere.
Il capitalismo, il rapporto sociale che ordina la società secondo la logica del profitto, mette gli uomini gli uni contro gli altri
ed è pronto a colpire duramente chiunque voglia uscire dal suo binario,
fosse anche un appartenente alle classi dominanti: Henry Ford, uno dei
più grandi industriali di tutti i tempi, perse una causa contro i suoi
soci, i fratelli Dodge, perché voleva utilizzare gli utili della sua
azienda per aumentare i salari dei suoi operai ed abbattere il prezzo
delle automobili prodotte. Di soldi evidentemente ne aveva già fatti
abbastanza. E invece no, se mandi avanti una azienda devi fare profitto, non puoi scegliere altrimenti.
Quelli che mantengono in piedi la produzione di beni e servizi sono i lavoratori
e non i “datori di lavoro”, come impropriamente vengono chiamati, visto
che pagano pochi spiccioli il lavoro altrui per fare montagne di
quattrini. Perciò, proprio i lavoratori avrebbero il potere di cambiare tutto questo.
Basterebbe che incrociassero le braccia, uniti, per dodici ore e il
mondo che conosciamo crollerebbe come un castello di carte. Certo, il problema è che dovrebbero mettersi tutti d’accordo.
Vallo a dire ad un
lavoratore. Chi lavora, per mantenere i figli o soltanto il proprio
stile di vita, è prigioniero della vita che fa. Proprio come in quel famoso trailer di Maccio Capatonda,
Italiano Medio, dove l’amico del protagonista dice “ma io c’ho già i
problemi miei” e lui gli risponde “ma i tuoi problemi derivano dal tuo
menefreghismo.” Se i lavoratori, che in sostanza mandano avanti con la loro obbedienza questo stato di cose, prendessero coscienza della loro forza, potrebbero rivoltare la situazione dall’oggi al domani.
Tuttavia, questi sono
divisi, la gente vive isolata dal resto del mondo, si accontenta di
qualche amico, una relazione se va bene, un paio di figli se si ha
coraggio o incoscienza; e, se le cose vanno male, si arriva perfino a
togliere la vita a se stessi o, se va peggio, a qualcun altro. Le pagine
di cronaca ultimamente sono state invase da episodi di questo tipo.
Perché? La ragione è semplice: ai lavoratori (e non solo a loro) manca una coscienza collettiva, perché ha prevalso una mentalità individualista che rende indifferenti alle sorti di chi sta nella stessa condizione.
Un simile approccio alla vita promuove il “vincente”, il figo di turno,
a scapito del perdente, lo sfigato. È il sogno americano: se ti impegni
e ce la fai sei un grande, altrimenti cazzi tuoi. Tant’è vero che looser, perdente, spesso nei film è tradotto in italiano con sfigato.
Qualcuno potrebbe obiettare che il problema è solo quello di dare a tutti delle pari opportunità
per gettarsi nella giungla del mercato. Peccato che questa sia una
dinamica che porta di per sé alla competizione sfrenata e, di
conseguenza, a disuguaglianze e aumento dell’ingiustizia sociale. La
stessa criminalità organizzata è il frutto di questa situazione: in
fondo il mafioso, rispetto all’imprenditore o al politico di successo, è solo qualcuno che persegue i “giusti fini” con mezzi illegali. Mentre, a ben vedere, la legalità entra sempre in uno stato di eccezione quando si parla dei ricchi e dei potenti.
L’individualismo,
inoltre, viene continuamente alimentato dalla pubblicità commerciale che
suggerisce le cose da acquistare per affermare davanti a se stessi e
agli altri la propria posizione sociale, il proprio successo personale.
Così il lavoratore deve lavorare per campare, e campa comprando con le
briciole che gli vengono elargite i prodotti del lavoro di gente nelle
sue stesse condizioni, se non addirittura peggiori. Gli operai cinesi
che producono gli iPhone vivono prigionieri letteralmente,
e non solo metaforicamente, mentre in occidente c’è chi stringe la
cinghia pur di avere in tasca l’ultimo modello dello smarphone più
famoso del mondo, in modo da sentirsi un po’ più simile a chi lo
sfrutta, e non agli altri sfruttati come lui.
Ma la tendenza peggiore di questo sistema,
quello che non solo mina alla base la capacità di reagire ma che va a
minacciare la nostra stessa natura umana, che va a distruggere l’umanità
presente in ciascuno di noi, è la tendenza alla passività.
Dai media mainstream e dalle scuole che ci dicono cosa dobbiamo credere
e cosa dobbiamo avere, a quella che potremmo definire una automazione
eccessiva, molesta,
che tende ad eliminare dalla vita umana ogni sforzo e ogni pena, con
mezzi sempre più veloci: porte automatiche ovunque, congegni che si fa
prima a ricomprarli che a ripararli, e così via, fino all’ultima
frontiera, fornita dalle nuove tecnologie di comunicazione, che fanno
vivere molti in un delirio di onnipotenza nel quale possiamo ottenere
qualunque cosa con un click, un delirio che nasconde la sempre maggiore
impotenza delle persone di fronte a ciò che accade.
Quando non demandiamo la fatica di vivere alle macchine, la mettiamo nelle mani degli esperti, dei tecnici.
Dal medico curante, al quale affidiamo il corpo fisico, ai governi più o
meno tecnici ai quali affidiamo la direzione del corpo sociale. Questa
mancanza generalizzata di responsabilità, questa delega in bianco su ogni aspetto della nostra vita è ciò che ci uccide ancora prima di cominciare a vivere. È ciò che schiaccia la nostra capacità di decidere, di determinare il corso della vita con le nostre mani.
L’illusione del vincente, il mito di Steve Jobs che con il suo genio diventa il numero uno, è che un individuo ce la possa fare da solo. Questa è pura menzogna: nessuno ce la fa da solo, chiunque ha bisogno di tutti gli altri. E se riesce in qualcosa, è solo perché ha ottenuto l’aiuto altrui, o per collaborazione, o per coercizione.
Il vincente è tale
perché si eleva su una massa di “perdenti”, il ricco esiste grazie alla
miseria dei più, il potente fonda il suo potere sull’obbedienza delle
masse.
Il lavoratore oggi è il perdente,
perché con la sua fatica permette a qualcun altro di arricchirsi,
mentre in cambio ottiene solo i mezzi per sopravvivere e un po’ di
intrattenimento a buon mercato che non fa altro che completare il quadro
della sua miseria.
Affinché le cose cambino veramente ci vuole innanzi tutto coscienza:
ci vuole un cambio di mentalità, bisogna insomma smettere di pensare
solo ai cazzi propri. Il cambio di mentalità porta alla collaborazione, a cercare nel prossimo non un rivale da schiacciare, ma un compagno da aiutare
e dal quale essere aiutati. La collaborazione permette miracoli
impossibili altrimenti. Questa potenzialità porta infine
all’attivazione, alla capacità di rompere i sistemi di passività che
prosciugano la vita in questa società. E proseguendo su questa strada,
le cose inizieranno a cambiare, se non subito, prima di quello che ci immaginiamo.
Gli esempi già ci
sono: i facchini, i lavoratori della logistica, che fanno i corrieri in
gruppi come Tnt, Sda, Ikea, nelle cooperative (vedi l’inchiesta Il Caporalato delle merci);
o a Taranto, dove da qualche anno si sono ribellati ed hanno cominciato
ad organizzarsi per lottare contro lo sfruttamento e il ricatto di
dover scegliere fra salute e lavoro.
L’unica cosa da fare è cercare la mano del compagno e stringerla forte, perché uniti siamo tutto, divisi non siamo niente.
Un manifesto!
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