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23/02/2015

Rivali o compagni? Miseria e potenziale del lavoratore nel XXI° secolo

Si può dire che il lavoro rappresenti una delle principali dimensioni dell’esistenza umana, e in un certo senso è quella che rende possibile tutte le altre, perché permette la sopravvivenza e la riproduzione continua del proprio stile di vita. Il lavoro è l’attività con cui ciascuno si procura le cose che gli servono per vivere.

Tuttavia, oggi come oggi, la maggior parte dei lavoratori è messa male: lavora tanto, guadagna poco e spreca il “tempo libero” in attività futili che in diversi casi rendono ancora più infelici. Un esempio su tutti, il peggiore: il gioco d’azzardo compulsivo. Basta fermarsi un quarto d’ora in un bar con la ricevitoria del lotto e un paio di videopoker per rendersene conto.

Lo scarto fra le incredibili possibilità che ci fornirebbe lo sviluppo tecnico e industriale e la miseria della vita di buona parte delle persone sembra spaventoso a chi si ferma un attimo a riflettere: in Italia come altrove, i lavoratori sono costretti in condizioni sempre più umilianti, con il passare del tempo e delle generazioni. Se coloro che oggi orbitano intorno alla soglia dei trent’anni non sono riusciti a riprodurre la ricchezza dei propri genitori (che comunque erano sfruttati) i ventenni hanno ormai lasciato ogni speranza, manco fossero entrati nell’Inferno dantesco, tutti persi fra tirocini, stage non retribuiti, contratti a nero, precariato diffuso o pura e semplice inoccupazione (ovvero il non essere mai riusciti a trovare un lavoro).

Mancano i soldi perché c’è la crisi. Questo è il mantra che ci ripetono. Ma la crisi significa solo che chi fa i veri soldi, per continuare a farli, deve impoverire il resto della popolazione. Basta guardarsi la recente puntata di Presadiretta, intitolata Ricchi e poveri, per capirlo. E si tratta di Rai Tre, non di qualche piccolo sito di informazione antagonista. Mentre i più ricchi si arricchiscono sempre di più e vivono, come si diceva un tempo, nella bambagia, la capitale industriale del nord Italia, Torino, sta scivolando nella miseria: gli operai vanno a casa, i piccoli commercianti falliscono e si rivolgono alla Caritas, i bambini non hanno più accesso ad una sana nutrizione.

Il problema è a monte, ma nessuno osa dirlo: si tratta del modo in cui è organizzata la società e, in particolare, quello in cui i beni di cui necessitiamo per vivere vengono prodotti e distribuiti. Non si tratta di questa o quella scelta politica, né di investire di più in un settore piuttosto che in un altro; si tratta del fatto che l’intero corpo sociale viene piegato ad un unico interesse: il profitto. Davanti a questo imperativo, a questo dovere morale, tutto il resto è secondario, il benessere della popolazione, la salute, l’ambiente, le relazioni affettive, la dignità del proprio mestiere.

Il capitalismo, il rapporto sociale che ordina la società secondo la logica del profitto, mette gli uomini gli uni contro gli altri ed è pronto a colpire duramente chiunque voglia uscire dal suo binario, fosse anche un appartenente alle classi dominanti: Henry Ford, uno dei più grandi industriali di tutti i tempi, perse una causa contro i suoi soci, i fratelli Dodge, perché voleva utilizzare gli utili della sua azienda per aumentare i salari dei suoi operai ed abbattere il prezzo delle automobili prodotte. Di soldi evidentemente ne aveva già fatti abbastanza. E invece no, se mandi avanti una azienda devi fare profitto, non puoi scegliere altrimenti.

Quelli che mantengono in piedi la produzione di beni e servizi sono i lavoratori e non i “datori di lavoro”, come impropriamente vengono chiamati, visto che pagano pochi spiccioli il lavoro altrui per fare montagne di quattrini. Perciò, proprio i lavoratori avrebbero il potere di cambiare tutto questo. Basterebbe che incrociassero le braccia, uniti, per dodici ore e il mondo che conosciamo crollerebbe come un castello di carte. Certo, il problema è che dovrebbero mettersi tutti d’accordo.

Vallo a dire ad un lavoratore. Chi lavora, per mantenere i figli o soltanto il proprio stile di vita, è prigioniero della vita che fa. Proprio come in quel famoso trailer di Maccio Capatonda, Italiano Medio, dove l’amico del protagonista dice “ma io c’ho già i problemi miei” e lui gli risponde “ma i tuoi problemi derivano dal tuo menefreghismo.” Se i lavoratori, che in sostanza mandano avanti con la loro obbedienza questo stato di cose, prendessero coscienza della loro forza, potrebbero rivoltare la situazione dall’oggi al domani.

Tuttavia, questi sono divisi, la gente vive isolata dal resto del mondo, si accontenta di qualche amico, una relazione se va bene, un paio di figli se si ha coraggio o incoscienza; e, se le cose vanno male, si arriva perfino a togliere la vita a se stessi o, se va peggio, a qualcun altro. Le pagine di cronaca ultimamente sono state invase da episodi di questo tipo.

Perché? La ragione è semplice: ai lavoratori (e non solo a loro) manca una coscienza collettiva, perché ha prevalso una mentalità individualista che rende indifferenti alle sorti di chi sta nella stessa condizione. Un simile approccio alla vita promuove il “vincente”, il figo di turno, a scapito del perdente, lo sfigato. È il sogno americano: se ti impegni e ce la fai sei un grande, altrimenti cazzi tuoi. Tant’è vero che looser, perdente, spesso nei film è tradotto in italiano con sfigato.

Qualcuno potrebbe obiettare che il problema è solo quello di dare a tutti delle pari opportunità per gettarsi nella giungla del mercato. Peccato che questa sia una dinamica che porta di per sé alla competizione sfrenata e, di conseguenza, a disuguaglianze e aumento dell’ingiustizia sociale. La stessa criminalità organizzata è il frutto di questa situazione: in fondo il mafioso, rispetto all’imprenditore o al politico di successo, è solo qualcuno che persegue i “giusti fini” con mezzi illegali. Mentre, a ben vedere, la legalità entra sempre in uno stato di eccezione quando si parla dei ricchi e dei potenti.

L’individualismo, inoltre, viene continuamente alimentato dalla pubblicità commerciale che suggerisce le cose da acquistare per affermare davanti a se stessi e agli altri la propria posizione sociale, il proprio successo personale. Così il lavoratore deve lavorare per campare, e campa comprando con le briciole che gli vengono elargite i prodotti del lavoro di gente nelle sue stesse condizioni, se non addirittura peggiori. Gli operai cinesi che producono gli iPhone vivono prigionieri letteralmente, e non solo metaforicamente, mentre in occidente c’è chi stringe la cinghia pur di avere in tasca l’ultimo modello dello smarphone più famoso del mondo, in modo da sentirsi un po’ più simile a chi lo sfrutta, e non agli altri sfruttati come lui.

Ma la tendenza peggiore di questo sistema, quello che non solo mina alla base la capacità di reagire ma che va a minacciare la nostra stessa natura umana, che va a distruggere l’umanità presente in ciascuno di noi, è la tendenza alla passività. Dai media mainstream e dalle scuole che ci dicono cosa dobbiamo credere e cosa dobbiamo avere, a quella che potremmo definire una automazione eccessiva, molesta, che tende ad eliminare dalla vita umana ogni sforzo e ogni pena, con mezzi sempre più veloci: porte automatiche ovunque, congegni che si fa prima a ricomprarli che a ripararli, e così via, fino all’ultima frontiera, fornita dalle nuove tecnologie di comunicazione, che fanno vivere molti in un delirio di onnipotenza nel quale possiamo ottenere qualunque cosa con un click, un delirio che nasconde la sempre maggiore impotenza delle persone di fronte a ciò che accade.

Quando non demandiamo la fatica di vivere alle macchine, la mettiamo nelle mani degli esperti, dei tecnici. Dal medico curante, al quale affidiamo il corpo fisico, ai governi più o meno tecnici ai quali affidiamo la direzione del corpo sociale. Questa mancanza generalizzata di responsabilità, questa delega in bianco su ogni aspetto della nostra vita è ciò che ci uccide ancora prima di cominciare a vivere. È ciò che schiaccia la nostra capacità di decidere, di determinare il corso della vita con le nostre mani.

L’illusione del vincente, il mito di Steve Jobs che con il suo genio diventa il numero uno, è che un individuo ce la possa fare da solo. Questa è pura menzogna: nessuno ce la fa da solo, chiunque ha bisogno di tutti gli altri. E se riesce in qualcosa, è solo perché ha ottenuto l’aiuto altrui, o per collaborazione, o per coercizione.

Il vincente è tale perché si eleva su una massa di “perdenti”, il ricco esiste grazie alla miseria dei più, il potente fonda il suo potere sull’obbedienza delle masse.

Il lavoratore oggi è il perdente, perché con la sua fatica permette a qualcun altro di arricchirsi, mentre in cambio ottiene solo i mezzi per sopravvivere e un po’ di intrattenimento a buon mercato che non fa altro che completare il quadro della sua miseria.

Affinché le cose cambino veramente ci vuole innanzi tutto coscienza: ci vuole un cambio di mentalità, bisogna insomma smettere di pensare solo ai cazzi propri. Il cambio di mentalità porta alla collaborazione, a cercare nel prossimo non un rivale da schiacciare, ma un compagno da aiutare e dal quale essere aiutati. La collaborazione permette miracoli impossibili altrimenti. Questa potenzialità porta infine all’attivazione, alla capacità di rompere i sistemi di passività che prosciugano la vita in questa società. E proseguendo su questa strada, le cose inizieranno a cambiare, se non subito, prima di quello che ci immaginiamo.

Gli esempi già ci sono: i facchini, i lavoratori della logistica, che fanno i corrieri in gruppi come Tnt, Sda, Ikea, nelle cooperative (vedi l’inchiesta Il Caporalato delle merci); o a Taranto, dove da qualche anno si sono ribellati ed hanno cominciato ad organizzarsi per lottare contro lo sfruttamento e il ricatto di dover scegliere fra salute e lavoro.

L’unica cosa da fare è cercare la mano del compagno e stringerla forte, perché uniti siamo tutto, divisi non siamo niente.


Un manifesto!

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