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26/02/2015

Sulla sostenibilità del debito

Il mio intervento sulla questione della solvibilità e sostenibilità del debito ha sollevato obiezioni che non intendo ignorare ed alle quali preferisco rispondere collettivamente. Mettiamo in chiaro una cosa che mi pare sia stata fraintesa: la mia citazione del libro di Rogoff e Rehinart non implica una mia accettazione né della loro impostazione né delle ricette che propongono.

Sono perfettamente a conoscenza delle obiezioni di metodo che sono state loro rivolte e gli errori che hanno riconosciuto, non è questo il punto. Tuttavia mi pare che i due siano stati sottoposti ad una critica eccessiva che va al di là del merito delle loro affermazioni. I due sono risultati rapidamente “Antipatici” tanto ai neo classici e neoliberisti (perché mettono in questione il dogma della “finanza infinita”) quanto ai keynesiani (per le loro ricette).

Io mi sono limitato ad una citazione rapidissima senza entrare nel merito delle critiche e delle risposte che avrebbero richiesto un saggio a parte. A me interessava solo estrarre un punto della loro opera: l’aver affermato che il rifinanziamento del debito non può essere infinito, ma c’è un punto di caduta oltre il quale il default diventa inevitabile. Poi possiamo discutere su quale sia questa soglia e come la si può stabilire, ma essa c’è. Per cui l’indicazione di Rogoff e Rehinart non va intesa in termini meccanici ed assoluti, ma assunta cum grano salis: quel 90% indica una sorta di medietà storica, dopo di che forse i calcoli si possono rivedere per scoprire che la soglia critica non è il 90% netto ma il 97,6% o quel che vi pare, ma credo che, ragionevolmente, possiamo assumere quella soglia come il dato medio approssimativo su cui ragionare.

In primo luogo cerchiamo di metterci d’accordo sul senso delle espressioni: ad esempio, cosa significa sostenibilità del debito e cosa esigibilità (o solvibilità, che è la stessa cosa a parti invertite) del debito.

Solvibilità significa (mi correggano i molti dotti intervenuti) che se io ho un debito, poniamo di 100.000 euro ed ho, o avrò i 100.000 euro necessari potrò rimborsarlo. Sostenibilità significa che, in attesa di avere la somma necessaria a soddisfare il debito, posso intanto pagarne regolarmente gli interessi, anche nel caso occorra rifinanziarlo a nuove condizioni. Questo in linea di massima.

In teoria il debito è rinnovabile all’infinito, sempre che si trovino creditori disposti ad acquistarlo e che si sia in grado di far fronte ai diversi tassi di ogni rifinanziamento. Ma c’è un limite oltre il quale gli interessi non sono più pagabili e, perciò stesso, prima ancora di raggiungere quel livello, c’è una soglia oltre la quale non è più possibile emettere nuovo titoli di debito, perché gli interessi aggiuntivi porterebbero al default.

Dunque, il default non è una libera scelta che si può evitare a piacimento e il debito non è espandibile ad libitum. Come per qualsiasi privato, il fallimento interviene forzatamente quando non ci sono i soldi per pagare gli interessi. E convinciamoci che non esiste il debito eterno che non si rimborsa mai, perché questo significa ballare sempre sull’orlo del fallimento e gravare i cittadini di una eterna tassa, quella degli interessi. Senza contare che, prima o poi, capita la pietra di inciampo che fa cadere nel burrone.

Obiezione: “ma uno Stato può riacquistare sul mercato le proprie emissioni per evitare il default”. Appunto: uno stato riacquista i suoi titoli sul mercato pagandoli alla scadenza e se vuol fare diminuire la massa debitoria, non rimpiazza i titoli estinti con nuove obbligazioni. Il problema è se non ha i soldi per farlo. In una certa misura ogni Stato ha una riserva di denaro (titoli di altri o liquidi) ma, ovviamente, la mantiene per particolari evenienze, mentre di solito ripiana il debito con l’avanzo primario (la cui esistenza qualcuno dei commenti crede di avermi rivelato: ne avevo già sentito parlare, vi assicuro). Quando questo avanzo primario manca, in attesa di aumentare le entrate o diminuire le uscite per ricavarne, allo Stato restano solo due strade: o emette nuovi titoli di debito o stampa moneta. Nel primo caso crescerà la massa del debito ed occorrerà mettere in conto i nuovi interessi da pagare ed abbiamo detto che, oltre un certo limite non si può andare; nel secondo la moneta si svaluterà attraverso il meccanismo dell’inflazione. E lì occorrerà vedere a quali condizioni si troveranno i rifinanziatori del debito precedente: chi acquista un titolo di Stato, di solito, è molto attento non al tasso nominale ma a quello reale che è dato (altra scoperta che qualche commento mi ha rivelato!) dalla differenza fra il tasso nominale e quello di inflazione. E se il sottoscrittore è straniero, baderà al tasso di cambio fra la moneta del titolo sottoscritto e la propria moneta.

Di solito, la politica seguita è quella di un mix più o meno accorto fra le diverse opzioni: in una certa misura, la svalutazione è funzionale a “sgonfiare” il debito accumulato, ed in effetti è quello che gli stati fanno normalmente, cercando di pagare il debito con la crescita del Pil (che comporta un aumento del gettito fiscale) ed erodendolo con un po’ d'inflazione che produce interessi reali negativi. E’ ovvio, però che questo non può risolvere tutto, perché, oltre una certa soglia di inflazione il debito non sarebbe collocabile se non ad interessi altissimi (negli anni ottanta, su alcuni titoli lo stato italiano arrivava a pagare interessi salatissimi perché l’inflazione aveva superato il 20% annuo) che, a loro volta, alimentano il debito, provocano nuova emissione e, dunque, nuova inflazione. E’ storicamente dimostrato (il che non significa che in ogni caso sia così, ma che nella medietà dei casi lo è) che quando l’inflazione supera il 27-28% diventa non più governabile, entra in una spirale sempre più veloce, che conduce alla “morte della moneta” (vedi il caso di Weimar). In qualche caso, il modo per sgonfiare l’ “ascesso debitorio” è proprio quello di “far morire” la moneta in cui esso è stato emesso, per passare ad una nuova moneta di diverso valore (è quello che fece la Francia dopo la guerra d’Algeria, passando ai nuovi franchi).

Manovre in verità sempre un po’ rischiose perché non è dato sapere in anticipo quale sarà la reazione dei mercati finanziari.

Ovviamente, uno stato che abbia un debito prevalentemente interno (cioè collocato presso propri cittadini o soggetti economici di diritto interno) è in vantaggio su uno Stato che sia prevalentemente esposto verso soggetti internazionali (altri stati o banche centrali, banche straniere ecc.), perché può sempre contare su una maggiore disponibilità dei suoi creditori: il piccolo risparmiatore è meno incline ad investire fuori del proprio paese, sia per ragioni psicologiche e di conoscenza dei mercati, sia perché c’è sempre convenienza a sostenere la moneta del proprio paese ed il suo potere d’acquisto, dato che in questo modo si difendono sia i risparmi che i redditi ecc. In una certa misura questo è anche il comportamento delle banche nazionali, delle imprese, che hanno interesse a non pagare troppo sul mercato internazionale le merci loro necessarie ecc. e, dunque, accettano per qualche tempo anche interessi reali passivi. Peraltro, se si tratta di propri cittadini ed enti, lo Stato può sempre ricorrere al “prestito forzoso” o a imposizioni patrimoniali. Tutte cose che, invece, non sono possibili allo Stato che abbia preminentemente creditori “esteri”. E questo spiega il caso del Giappone (il cui debito, mi dice un interventore “spiritoso”, supera il 200% del Pil, credendo così di farmi chissà quale rivelazione) che infatti, ha un debito per oltre i tre quarti interno.

Peraltro, quello che conta è il debito netto non quello nominale: se uno Stato è debitore per X Miliardi di dollari, ma è creditore di X+1 Miliardi verso altri, al netto è un creditore di 1 miliardo, e se, invece, è creditore per X-1 miliardi vuol dire che è debitore di 1 e non di X miliardi. E va detto, cosa che forse l’amico di cui prima ignora, che il Giappone è il secondo creditore mondiale degli Usa.

Il costo del denaro (gli interessi) è funzione del rischio: più un investimento è sicuro e meno interessi paga e vice versa, più è rischioso e più comporta interessi onerosi. Per calcolare il rischio c’è una funzione base: il rapporto fra debito e Pil (perché è ovvio che più alto è il pil, più è ricco il gettito fiscale e, dunque, maggiore è la probabilità che il debitore sia solvente). Ma questa è solo la base, non l’unico fattore di valutazione. Ad esempio conta anche il debito aggregato (Stato+imprese+famiglie) perché un elevato tasso di indebitamento delle famiglie e delle imprese implica una minore capacità di imposizione fiscale e più elevato rischio di default delle prime e delle seconde. Inoltre, se un paese è in una fase molto dinamica ed espansiva la sua credibilità è maggiore di quella di un paese stagnante, se un paese è una grande potenza militare ed ha un grande peso politico è ovvio che godrà di maggiore affidamento di un paese piccolo e marginale, se un paese è sostenuto, per motivi politici, da una grande potenza o una alleanza naturalmente ha più spazio di manovra, se, infine, un paese ha la possibilità di emettere moneta perché tutti gli altri la compreranno come moneta di scambio internazionale lo farà con più larghezza di ogni altro, perché gli effetti dell’inflazione si distribuiranno su tutti. Dunque, il costo del denaro per un singolo debitore è funzione di una molteplicità di fattori, ecco perché casi particolari come quelli di Usa, Uk o Giappone sono eccezioni che non  fanno testo e, comunque, sono imparagonabili al caso greco che è quello di cui mi ero occupato.

Per di più, a calcolare la soglia di rischio sono le agenzie di rating che classificano il debito e non è un mistero per nessuno che, nella maggior parte dei casi, si tratta di associazioni a delinquere assai poco imparziali. Vi ricordate la tripla A assegnata alla Lemann Brothers sino a due settimane prima del crack?

Nel caso della Grecia ci troviamo di fronte ad un piccolo paese che:

a. ha scarso peso politico e con ben pochi alleati;

b. non ha la possibilità di emettere moneta;

c.  ha un asset limitatissimo da vendere;

d. ha una economia in regresso ed allo stremo;

e. con un livello di debito che supera largamente il 100% del Pil e che peggiora costantemente sia per effetto degli interessi che per il regresso del Pil;

f. è trattato malissimo dalle agenzie di rating.

Tutto ciò premesso, mi sapete dire come un paese del genere può evitare il default? Si accettano suggerimenti dagli scienziati dell’ottimismo qui intervenuti. E dell’Italia parleremo.

Da ultimo, una cosa: alcuni (pochi) mi hanno obiettato scandalizzati dall’ipotesi di una confluenza con settori della destra antieuro (Fn, Lega, Ukip, mentre escludevo gli impresentabilissimi di Jobbik ed Alba dorata) adducendo l’insuperabilità delle barriere ideologiche. Scusate, ma vi siete accorti che Tsipras ha appena fatto un governo con un partito di destra “antieuropeista”? Se non sbaglio, i comunisti e gli azionisti convivevano nel Cln con monarchici e liberali. In Cina Mao concluse una alleanza con il Kmt contro i giapponesi. E, per venire a momenti meno drammatici, Pci e Psi condussero una battaglia contro la legge truffa convergendo con monarchici e fascisti nel 1953. In politica è abbastanza frequente concludere intese momentanee fra forze politiche anche ideologicamente molto distanti fra loro. Ovviamente l’intesa dura solo il tempo necessario ad affrontare il nemico comune e poi ciascuno per la sua strada. Non ho detto che Lega, Gue e M5s debbano sposarsi, ma solo votare insieme una mozione.

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