Siamo in piena tempesta
nel campo delle relazioni internazionali che sono entrate in
fibrillazione già dal tempo della “primavera araba” e che hanno
registrato forti divaricazioni nell’anno appena concluso. Le maggiori si
sono aperte con la crisi ucraina, prima con l’annessione della Crimea
alla Russia e poi con la nascita della repubblica del Dotensk, parimenti
sostenuta dalla Russia. Questo ha prodotto un doppio ordine di
divisione: da un lato la contrapposizione fra Russia e fronte
occidentale che ha condannato e sanzionato l’annessione. Dall’altra una
divisione intra-occidentale e intra-europea fra il fronte anti-russo –
Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Svezia e Regno Unito – e quello
che pur sanzionando Putin vuol dialogare – Germania ed Italia in testa –.
Questa contrapposizione ha avuto effetto
sullo scenario mediorientale: la difficoltà per gli Usa di impegnarsi
su troppi fronti contemporaneamente, ha provocato un allentamento
dell’attenzione occidentale su quello scacchiere, con la conseguenza di
spianare la strada alla nascita dello Stato Islamico (o se preferite,
Isis, Isil, Daesh o Califfato) che si stende per un territorio più
esteso del Texas fra Siria e Iraq.
Per la prima volta da un secolo, vengono messi in discussione i confini nazionali
sorti dalla fine dell’Impero Ottomano. Non che questo sia in sé un
dramma, trattandosi di confini artificiali tracciati con il righello e
mettendo insieme improbabili mosaici etnici (come nel caso della Siria) o
fondendo forzosamente gruppi poco inclini alla convivenza (come Curdi,
Sunniti e Sciiti in Iraq), ma di fatto siamo alla disintegrazione dei
sistemi statali di Siria, Libia, Yemen, Iraq che si aggiungono alla
lunga serie di Stati deboli o falliti già esistente (Sudan, Somalia,
Mali) ed a quelli che attraversano una grave crisi interna (Egitto,
Tunisia, Afghanistan).
Il tutto descrive un arco di crisi senza precedenti
che investe la gran parte dell’area del Mena (Medio Oriente e Nord
Africa) e che non lascia prevedere quale possa essere il punto di
caduta.
Nello stesso tempo la tensione tra Usa e
Russia ha toccato punte acute come non accadeva dalla fine della guerra
fredda. E si tratta di una biforcazione che minaccia di essere di lungo
periodo per l’inconciliabilità strategica dei due attori: gli Usa
intendono dimensionare la Russia a potenza regionale, debitamente
“contenuta” da una solida cintura Nato che include l’Ucraina, mentre la
Russia intende affermarsi come terza grande potenza mondiale insieme a
Usa e Cina ed, ovviamente, non vuol sentir parlare di un’Ucraina dentro
la Nato.
La contrapposizione sembra prefigurare
una sorta di nuovo bipolarismo fra Usa ed alleati da una parte e Cina e
Russia dall’altra, una intesa rafforzata dalla convergenza in materia
energetica. Ma è un processo in fieri tutt’altro che avviato a
conclusione certa: i cinesi non sono mai stati favorevoli a politiche di
blocco, preferendo mantenersi le mani libere all’interno di un sistema
di relazioni bilaterali, peraltro l’intesa energetica trova adesso
grandi difficoltà per la caduta verticale del prezzo del petrolio.
Già questa serie di dinamiche dicono
delle tendenze alla destabilizzazione del sistema di relazioni
internazionali; su tutto questo si sovrappone l’attentato parigino, per
comprendere il quale dobbiamo analizzare le diversità strategiche fra Al
Quaeda e l’Isis che sono molto rilevanti. Entrambe le due
organizzazioni intendono perseguire il fine dell’unificazione del mondo
islamico in una unità statale di tipo teocratico (il Califfato), ma con
percorsi diversi e confliggenti fra loro.
Al Quaeda ha sempre operato come gruppo
occulto trasversale e transnazionale. Da questo punto di vista, se mi si
passa l’ardita similitudine, Aq agisce come una sorta di P2 islamica,
cercando di reclutare pezzi di classi dirigenti nazionali per portare i
vari paesi sulla linea dello scontro con il “nemico lontano” (Usa ed
Europa). A questo scopo, Aq, pur partecipando alle guerre civili in
Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, privilegia i grandi attentati
spettacolari (New York, Madrid, Bali, Londra, ora Parigi) per
conquistare il favore delle masse popolari da usare come arma di
pressione verso i governi nazionali.
L’Isis, al contrario, tende a porsi
direttamente come soggetto politico-statuale, conquistando un
territorio, dandosi armamento pesante, coniando moneta, imponendo tasse
ecc. E, in questo quadro, all’Isis non interessa colpire il “nemico
lontano” o le azioni spettacolari all’estero, ma abbattere il “nemico
vicino” (i gruppi dirigenti nazionali arabi cui intende sostituirsi).
Dopo la morte di Osama Bin Ladin, Aq non
è stata in grado di reagire adeguatamente ed è entrata in una fase di
disgregazione che, però, sembra ora arrestarsi. Vice versa, l’Isis, con
la sua marcia verso Baghdad e la proclamazione dello Stato Islamico, ha
attirato a sé molti pezzi della jihad che precedentemente erano dalla
parte di Aq. Già a settembre, tuttavia, Aq dava segni di ripresa, con
iniziative (per ora di propaganda) verso il mondo musulmano non arabo e
segnatamente verso l’India.
L’attentato parigino
segna il pieno rilancio dell’organizzazione. Non è un caso che sia i
fratelli Kouachi che Coulibaly abbiano gridato la rispettiva
appartenenza ad Aq ed all’Isis, come non è un caso che, nel video di
rivendicazione, Aq ci tenga a precisare che si è trattato di una propria
iniziativa nella quale Coulibaly non c’entrava nulla: come dire che era
respinto il tentativo dell’Isis di infilarsi nella faccenda.
Certo, l’attentato parigino non è al
livello dell’11 settembre per spettacolarità, ma ha comunque ottenuto
una vastissima eco mediatica e l’obiettivo ha parlato a larghi strati
dell’opinione pubblica islamica: vendicare le offese al profeta è un
tema profondamente sentito nell’Islam, anche se questo non implica
necessariamente un atteggiamento favorevole al terrorismo jihadista.
Dunque, abbiamo una Aq in pieno rilancio che, probabilmente, ha in serbo
altre azioni più o meno dello stesso tipo, considerato che il suo
impegno, probabilmente si sposterà sempre più in Occidente, dopo la
ritirata americana dai paesi occupati.
Dal canto suo, l’Isis si trova ad un
bivio: concentrarsi nel suo scontro sul terreno, approfittando del fatto
che gli occidentali sono alle prese con Aq, ma lasciando, in questo
caso, il palcoscenico mediatico agli odiati rivali, che così possono
rilanciare la loro leadership sul mondo jihadsta, oppure, accettare la
sfida di Aq ed impegnarsi nello scacchiere terroristico europeo ma con il
rischio di provocare un intervento armato occidentale. Va detto che
l’Isis è l’organizzazione che ha reclutato circa 18.000 combattenti fra
gli europei convertiti all’Islam, per cui sarebbe in condizioni ottimali
per un programma di attentati in Europa. Allo stato delle conoscenze
non possiamo immaginare quale sarà la sua scelta.
E’ prevedibile, invece, che tutto questo
divaricherà ulteriormente il campo occidentale fra quanti proporranno
di concentrarsi nella caccia allo jiahdista nascosto in Europa o Usa (e
qualcuno si spingerà sino a cercare una tacita intesa con il Califfato,
pur di isolare e battere Aq) e quanti riterranno indifferibile un
intervento armato di terra contro l’Is e le sacche consimili in Nigeria e
Libia. E’ probabile che la prima tendenza troverà sostenitori fra gli
europei (tedeschi e francesi in prima linea) e la seconda raccoglierà
più simpatie in Israele ed in alcuni ambienti statunitensi meno propensi
a concentrarsi sullo scacchiere ucraino.
Questa serie di divaricazioni, peraltro avvengono in un momento caratterizzato:
a- dalle perturbazioni di borsa dovute al basso prezzo del petrolio;
b- da una incombente terza ondata di
crisi finanziaria che potrebbe colpire diversi paesi “emergenti” – a
partire dal Brasile – per poi contagiare Europa e Giappone;
c- da un crescente attrito nelle relazioni interasiatiche (Cina vs Giappone; Cina vs India; India vs Pakistan ecc.)
Uno scenario di inedita pericolosità, per molti versi ben peggiore di quello dell’11 settembre di 14 anni fa. Un dato su cui riflettere, per riconsiderare le modalità con cui governare il processo di globalizzazione in atto.
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