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22/02/2015

L’attentato di Parigi ed il mutamento delle relazioni internazionali

Siamo in piena tempesta nel campo delle relazioni internazionali che sono entrate in fibrillazione già dal tempo della “primavera araba” e che hanno registrato forti divaricazioni nell’anno appena concluso. Le maggiori si sono aperte con la crisi ucraina, prima con l’annessione della Crimea alla Russia e poi con la nascita della repubblica del Dotensk, parimenti sostenuta dalla Russia. Questo ha prodotto un doppio ordine di divisione: da un lato la contrapposizione fra Russia e fronte occidentale che ha condannato e sanzionato l’annessione. Dall’altra una divisione intra-occidentale e intra-europea fra il fronte anti-russo – Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Svezia e Regno Unito – e quello che pur sanzionando Putin vuol dialogare – Germania ed Italia in testa –.

Questa contrapposizione ha avuto effetto sullo scenario mediorientale: la difficoltà per gli Usa di impegnarsi su troppi fronti contemporaneamente, ha provocato un allentamento dell’attenzione occidentale su quello scacchiere, con la conseguenza di spianare la strada alla nascita dello Stato Islamico (o se preferite, Isis, Isil, Daesh o Califfato) che si stende per un territorio più esteso del Texas fra Siria e Iraq.

Per la prima volta da un secolo, vengono messi in discussione i confini nazionali sorti dalla fine dell’Impero Ottomano. Non che questo sia in sé un dramma, trattandosi di confini artificiali tracciati con il righello e mettendo insieme improbabili mosaici etnici (come nel caso della Siria) o fondendo forzosamente gruppi poco inclini alla convivenza (come Curdi, Sunniti e Sciiti in Iraq), ma di fatto siamo alla disintegrazione dei sistemi statali di Siria, Libia, Yemen, Iraq che si aggiungono alla lunga serie di Stati deboli o falliti già esistente (Sudan, Somalia, Mali) ed a quelli che attraversano una grave crisi interna (Egitto, Tunisia, Afghanistan).

Il tutto descrive un arco di crisi senza precedenti che investe la gran parte dell’area del Mena (Medio Oriente e Nord Africa) e che non lascia prevedere quale possa essere il punto di caduta.

Nello stesso tempo la  tensione tra Usa e Russia ha toccato punte acute come non accadeva dalla fine della guerra fredda. E si tratta di una biforcazione che minaccia di essere di lungo periodo per  l’inconciliabilità strategica dei due attori: gli Usa intendono dimensionare la Russia a potenza regionale, debitamente “contenuta” da una solida cintura Nato che include l’Ucraina, mentre la Russia intende affermarsi come terza grande potenza mondiale insieme a Usa e Cina ed, ovviamente, non vuol sentir parlare di un’Ucraina dentro la Nato.

La contrapposizione sembra prefigurare una sorta di nuovo bipolarismo fra Usa ed alleati da una parte e Cina e Russia dall’altra, una intesa rafforzata dalla convergenza in materia energetica. Ma è un processo in fieri tutt’altro che avviato a conclusione certa: i cinesi non sono mai stati favorevoli a politiche di blocco, preferendo mantenersi le mani libere all’interno di un sistema di relazioni bilaterali, peraltro l’intesa energetica trova adesso grandi difficoltà per la caduta verticale del prezzo del petrolio.

Già questa serie di dinamiche dicono delle tendenze alla destabilizzazione del sistema di relazioni internazionali; su tutto questo si sovrappone l’attentato parigino, per comprendere il quale dobbiamo analizzare le diversità strategiche fra Al Quaeda e l’Isis che sono molto rilevanti. Entrambe le due organizzazioni intendono perseguire il fine dell’unificazione del mondo islamico in una unità statale di tipo teocratico (il Califfato), ma con percorsi diversi e confliggenti fra loro.

Al Quaeda ha sempre operato come gruppo occulto trasversale e transnazionale. Da questo punto di vista, se mi si passa l’ardita similitudine, Aq agisce come una sorta di P2 islamica, cercando di reclutare pezzi di classi dirigenti nazionali per portare i vari paesi sulla linea dello scontro con il “nemico lontano” (Usa ed Europa). A questo scopo, Aq, pur partecipando alle guerre civili in Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, privilegia i grandi attentati spettacolari (New York, Madrid, Bali, Londra, ora Parigi) per conquistare il favore delle masse popolari da usare come arma di pressione verso i governi nazionali.

L’Isis, al contrario, tende a porsi direttamente come soggetto politico-statuale, conquistando un territorio, dandosi armamento pesante, coniando moneta, imponendo tasse ecc. E, in questo quadro, all’Isis non interessa colpire il “nemico lontano” o le azioni spettacolari all’estero, ma abbattere il “nemico vicino” (i gruppi dirigenti nazionali arabi cui intende sostituirsi).

Dopo la morte di Osama Bin Ladin, Aq non è stata in grado di reagire adeguatamente ed è entrata in una fase di disgregazione che, però, sembra ora arrestarsi. Vice versa, l’Isis, con la sua marcia verso Baghdad e la proclamazione dello Stato Islamico, ha attirato a sé molti pezzi della jihad che precedentemente erano dalla parte di Aq. Già a settembre, tuttavia, Aq dava segni di ripresa, con iniziative (per ora di propaganda) verso il mondo musulmano non arabo e segnatamente verso l’India.

L’attentato parigino segna il pieno rilancio dell’organizzazione. Non è un caso che sia i fratelli Kouachi che Coulibaly abbiano gridato la rispettiva appartenenza ad Aq ed all’Isis, come non è un caso che, nel video di rivendicazione, Aq ci tenga a precisare che si è trattato di una propria iniziativa nella quale Coulibaly non c’entrava nulla: come dire che era respinto il tentativo dell’Isis di infilarsi nella faccenda.

Certo, l’attentato parigino non è al livello dell’11 settembre per spettacolarità, ma ha comunque ottenuto una vastissima eco mediatica e l’obiettivo ha parlato a larghi strati dell’opinione pubblica islamica: vendicare le offese al profeta è un tema profondamente sentito nell’Islam, anche se questo non implica necessariamente un atteggiamento favorevole al terrorismo jihadista. Dunque, abbiamo una Aq in pieno rilancio che, probabilmente, ha in serbo altre azioni più o meno dello stesso tipo, considerato che il suo impegno, probabilmente si sposterà sempre più in Occidente, dopo la ritirata americana dai paesi occupati.

Dal canto suo, l’Isis si trova ad un bivio: concentrarsi nel suo scontro sul terreno, approfittando del fatto che gli occidentali sono alle prese con Aq, ma lasciando, in questo caso, il palcoscenico mediatico agli odiati rivali, che così possono rilanciare la loro leadership sul mondo jihadsta, oppure, accettare la sfida di Aq ed impegnarsi nello scacchiere terroristico europeo ma con il rischio di provocare un intervento armato occidentale. Va detto che l’Isis è l’organizzazione che ha reclutato circa 18.000 combattenti fra gli europei convertiti all’Islam, per cui sarebbe in condizioni ottimali per un programma di attentati in Europa. Allo stato delle conoscenze non possiamo immaginare quale sarà la sua scelta.

E’ prevedibile, invece, che tutto questo divaricherà ulteriormente il campo occidentale fra quanti proporranno di concentrarsi nella caccia allo jiahdista nascosto in Europa o Usa (e qualcuno si spingerà sino a cercare una tacita intesa con il Califfato, pur di isolare e battere Aq) e quanti riterranno indifferibile un intervento armato di terra contro l’Is e le sacche consimili in Nigeria e Libia. E’ probabile che la prima tendenza troverà sostenitori fra gli europei (tedeschi e francesi in prima linea) e la seconda raccoglierà più simpatie in Israele ed in alcuni ambienti statunitensi meno propensi a concentrarsi sullo scacchiere ucraino.

Questa serie di divaricazioni, peraltro avvengono in un momento caratterizzato:

a- dalle perturbazioni di borsa  dovute al basso  prezzo del petrolio;

b- da una incombente terza ondata di crisi finanziaria che potrebbe colpire diversi paesi “emergenti” – a partire dal Brasile – per poi contagiare Europa e Giappone;

c- da un crescente attrito nelle relazioni interasiatiche (Cina vs Giappone; Cina vs India; India vs Pakistan ecc.)

Uno scenario di inedita pericolosità, per molti versi ben peggiore di quello dell’11 settembre di 14 anni fa. Un dato su cui riflettere, per riconsiderare le modalità con cui governare il processo di globalizzazione in atto.

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