Quasi contestualmente a questa
lunga riflessione, in cui il neoministro greco Varoufakis spiega le
ragioni della sua adesione e della sua critica al marxismo generalmente
inteso, qualche giorno fa usciva un contributo di Slavoj Zizek su Repubblica,
teso ad inquadrare politicamente il problema ISIS nello scenario
globale. Due spunti profondamente diversi, ma che convergono verso
un’identica ipotesi interpretativa della realtà ed un’unica soluzione
politica per l’avvenire. Una casualità eccessivamente casuale per non
destare interpretazioni – e preoccupazioni – politiche. Sebbene da punti
di vista differenti, il ministro descamisado e il filosofo lacaniano
confluiscono verso l’idea che il capitalismo vada salvato dalla
barbarie, cioè da tutto ciò che si pone fuori dal perimetro liberale.
Capitalismo o barbarie, termina la lunga riflessione del ministro greco;
allo stesso modo, sebbene non così esplicito, Zizek converge spiegando
che solo una tensione stimolante della sinistra radicale può salvare il
capitalismo dai suoi eccessi liberisti, riaffermare il liberalismo come
metodo politico progressista così da impedire sul nascere degenerazioni alla ISIS. Poco male, la solita fuffa
buonista di una certa sinistra salottiera, potremmo liquidarla. Non
fosse che Zizek da qualche anno viene percepito come uno dei più
rilevanti maitres a penseer della nuova sinistra radicale e
anticapitalista, mentre Varoufakis – insieme a Syriza – è visto come
possibile leader della sinistra europea. Che due personaggi così
rilevanti per il dibattito della sinistra “radicale” affermino senza
giri di parole che oggi l’unica alternativa sia stabilizzare il
capitalismo salvandolo dai suoi eccessi dovrebbe far preoccupare più di
qualcuno. Vent’anni dopo, i nodi teorici della stagione del
“bertinottismo” rimangono ancora tutti sul pettine, reiterati da una
certa intellettualità descritta come “radicale” ma oggi più che mai
completamente inserita nei processi mainstream di orientamento delle
opinioni pubbliche.
Sia Varoufakis sia Zizek sembrano dirci che non esiste, almeno al momento, alternativa credibile al capitalismo, dunque l’unico
orizzonte entro cui la sinistra può giocarsi un ruolo è quello di
stabilizzare il capitalismo stesso e le sue strutture di potere in cui
si sostanzia politicamente:
Il nostro compito dovrebbe allora essere duplice: proporre un’analisi dell’attuale stato delle cose che europei non marxisti, benintenzionati, sedotti dalle sirene del neoliberismo, trovino profondo. E dar seguito a tale analisi solida con proposte di stabilizzazione dell’Europa, per porre fine alla spirale verso il basso che, alla fine, rafforza solo i fanatici e incuba l’uovo del serpente. Ironicamente, quelli di noi che aborriscono l’eurozona, hanno il dovere morale di salvarla![…] Forgiare alleanze con forze reazionarie, come penso dovremmo fare per stabilizzare oggi l’Europa, ci espone al pericolo di diventare cooptati, di perdere il nostro radicalismo a causa della calda luce dell’essere ‘arrivati’ nei corridoi del potere.
Questa la versione greca del pensiero liberale “di sinistra”. In
sostanza, se l’alternativa al sistema economico, sociale e culturale
dell’occidente capitalista sono le forme di reazione ad esso che in
determinate aree del globo si sono sviluppate, meglio tenerci stretto il
nostro modello cementificando le strutture su cui si è costruito,
provando nel contempo a spostarle a sinistra ma sempre all’interno dello
stesso paradigma liberale. Zizek afferma qualcosa di simile su Repubblica:
Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione – la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.
In questa sequela di luoghi comuni il
filosofo sloveno confonde le lotte anti-coloniali con l’ISIS, arrivando
così ad affermare che se le lotte contro il capitalismo sono diventate
queste, hanno cioè subito tale processo degenerativo, meglio tenersi
stretti i valori del liberalismo occidentale capitalista. Sfugge al
filosofo che l’ISIS non costituisce una risposta, per quanto deformata,
al colonialismo o all’imperialismo occidentale, ma è un suo diretto
prodotto, cioè il frutto maturo delle politiche occidentali nella
regione mediorientale. Rafforzare il liberalismo capitalista contro degenerazioni
quali ISIS è un controsenso, perché ISIS altro non è che il risultato
di quel modello politico economico. Interpretazioni prodotte dalla
natura sostanzialmente idealistica dei riferimenti culturali del
filosofo sloveno, incapace di guardare al modello produttivo per
concentrarsi sulle sue sovrastrutture intellettuali. Compagni, parliamo dei rapporti di produzione! Avrebbe
ammonito Brecht dall’alto della sua sapienza rivoluzionaria. E sono
proprio questi che scompaiono nel dibattito delle idee promosso da Zizek
e compagni, a cui si accoda prontamente anche Varoufakis, peraltro
richiestissimo nelle peggiori università del regno liberista.
In ambedue queste espressioni della
sinistra europea (ed eurocentrica), risalta la completa sfiducia verso
ogni possibile alternativa. La situazione europea, quella cioè di una
sinistra marginale, viene elevata a condizione politica globale, quando
in realtà in diverse parti del mondo i destini della sinistra di classe
non sono affatto inseriti nel solco della sconfitta storica delle
sinistre europee. Ma anche limitandoci all’Europa, Varoufakis non coglie
lo sviluppo dialettico che ha promosso Syriza al potere. Non è stata la
sua camicia senza cravatta o il sorriso di Tsipras a far vincere le
elezioni in Grecia, quanto un quinquennio di radicali lotte di classe
che hanno spostato a sinistra lo scenario politico ellenico, costruito
quelle basi su cui sperimentare l’avventura elettorale. Syriza ha avuto
il merito di aver saputo coagulare e sintetizzare tale processo
dinamico, ma appena vinte le elezioni ha creduto di essere
autosufficiente, autonoma dai processi reali che l’hanno portata al
potere politico. Convinta di poter trattare tra pari solo per
un’affermazione elettorale, si è scontrata col potere, quello vero, a
cui sono bastate due settimane per rimettere in riga il monello greco
mandando un messaggio a tutta Europa ma anche a noi: non è per via
elettorale che si cambia l’esistente, tantomeno qualche accordo
finanziario. Compagni, parliamo dei rapporti di produzione, non della camicia di Tsipras.
Varoufakis, cavalcando un certo
“pessimismo delle volontà”, non rileva peraltro che sono state proprio
le lotte rivoluzionarie greche ad aver impresso al corso della storia
politica del paese una svolta, malamente gestita in questo mese dal
governo Syriza. Insomma, proprio la Grecia dimostra che l’alternativa è
potenzialmente possibile, alla faccia di Varoufakis, Zizek e compagnia
contando. Certo, insieme alle lotte, servirebbe un “Lenin” capace di cogliere l’occasione,
moltiplicando la forza della piazza con il coraggio delle scelte
politiche. L’incapacità di una classe politica viene fatta passare per
impossibilità di modificare l’esistente, quando in realtà in Grecia si è
verificato il contrario: una concreta possibilità di modificare
l’esistente dilapidata da organizzazioni di sinistra – in primo luogo il
KKE – ancorate a modelli inservibili di azione politica. Ma è qui che
si situa l’errore storico delle sinistre europee, non
nell’impossibilità, dell’assenza di alternativa, del “capitalismo o
barbarie”. Sebbene ambedue i pensatori qui ricordati sembrerebbero
prendere le distanze da un certo determinismo positivista, ricadono nel
più trito dei determinismi storici, quello per cui la situazione è
immodificabile quindi tanto vale adeguarsi. Ma senza prospettiva
rivoluzionaria non esiste possibilità riformista, e la vicenda greca di
queste settimane sta qui, per l’ennesima volta, a dimostrarlo.
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