E’ in un contesto disastroso – economicamente, politicamente e militarmente parlando – che le autorità ucraine e gli ambienti liberali e nazionalisti festeggiano in questi giorni il primo anniversario dalla cosiddetta ‘rivoluzione’ di Maidan che un anno fa, a sentire la propaganda ufficiale, liberò il paese dal ‘giogo di Mosca’. Che il presidente Yanukovich, defenestrato nel febbraio dello scorso anno fosse vicino agli interessi russi, anche se tentennò fino all’ultimo prima di dire ‘no’ all’integrazione dell’Ucraina nell’area economica, politica e militare dell’Unione Europea – il fattore scatenante del golpe – non è certo un segreto. Ma la dipendenza, la sudditanza attuale di Kiev rispetto a governi e interessi stranieri ha raggiunto negli ultimi mesi un livello davvero impressionante che neanche la più becera propaganda governativa può nascondere. Un bel paradosso per una nuova classe dirigente che si è imposta, grazie alla violenza ma anche al sostegno di una parte considerevole della popolazione del paese, sulla base di un discorso ultranazionalista. Del ‘posto al sole’ nel mondo per una Ucraina che si vorrebbe forte e indipendente è difficile trovare traccia e a farla da padroni nelle stanze dei bottoni di Kiev, per non parlare del fronte economico, sono sempre più capi di stato, imprenditori e funzionari di altri paesi.
A ricordare ai più distratti che l’Ucraina nazionalista non è altro che una colonia della Nato è stato l’arrivo, nei giorni scorsi a Kiev, di Mikheil Saakashvili, ex presidente della Georgia dal 2004 al 2007 e poi dal 2008 al 2013. Saakashvili é stato ‘scelto’ dal presidente e oligarca ucraino Petro Poroshenko come capo del nuovo Consiglio consultivo per le riforme, ruolo che dovrebbe preoccupare non poco lavoratori e pensionati ucraini, che per quanto nazionalisti e fedeli al nuovo regime dovranno fare i conti con una serie di pesantissime controriforme economiche all’insegna del liberismo più sfrenato. L’ex uomo forte di Tbilisi è letteralmente scappato dalla Georgia nel 2013, insieme ad alcuni dei suoi ministri, rifugiandosi negli Stati Uniti, perché accusato dalla magistratura del suo paese di aver falsificato alcune prove riguardanti la morte dell’ex primo ministro Zurab Zhvania, di aver ordinato il pestaggio di un dirigente politico critico nei suoi confronti, di aver fatto sparire 5 milioni di dollari di fondi statali e di altre ‘cosucce’. Che il regime ucraino abbia imbarcato un simile personaggio, di cui ora la Procura generale della Georgia chiede a Kiev l’estradizione nonostante il governo di Tbilisi sia nell’orbita occidentale e sia in procinto di entrare nell’Alleanza Atlantica, è assai indicativo dello ‘stato di salute’ della democrazia ucraina che ha deciso di affidare a un bandito a libro paga di Washington il compito di coordinare la fornitura di armi letali occidentali alle forze armate ucraine.
Che il governo di Kiev sia non controllato a distanza dai padrini occidentali ma strettamente e direttamente commissariato dagli Stati Uniti sfugge spesso a giornalisti, commentatori e analisti. Come definire altrimenti il fatto che da alcuni mesi all’interno dell’esecutivo Jatsenjiuk – ex tecnocrate liberista trasformatosi in un falco nazionalista guerrafondaio – siedano ben tre ministri stranieri? Che, ricordiamo per i più distratti, sono la statunitense di origini ucraine Nataljia Jareshko, proveniente dal gruppo finanziario internazionale Horizon Capital, piazzata alle Finanze; il lituano Aivaras Abromavicius, ex manager del fondo d’investimento East Capital, piazzato a dirigere il Ministero dell'Economia; e il georgiano Alexander Kvitashvili, ex ministro della salute nei governi Saakashvili a Tbilisi, scelto per guidare il dicastero della Sanità di Kiev. Per non parlare di alcune decine di funzionari, anche loro stranieri e anche loro legati a doppio filo alle multinazionali occidentali e ai think tank della Nato, piazzati in posizione chiave nell’amministrazione statale ucraina. Come il numero due del Ministero degli Interni guidato da Arsenj Avakov, Eka Zguladze, o il viceprocuratore generale di Kiev, David Sakvarelidze, entrambi georgiani ed entrambi uomini chiave durante il regime di Saakashvili.
Una colonizzazione sfacciata da parte di Washington del governo ucraino che non ha eguali nella storia recente di nessuno dei paesi, numerosi, che negli ultimi decenni sono finiti sotto il tallone dell’imperialismo statunitense, che utilizza preferenzialmente commissari provenienti dalla Georgia e dalle Repubbliche Baltiche. Una provocazione non solo nei confronti della Russia ma anche degli interessi nell’area dell’Unione Europea, che pure finora non ha fatto molto per bloccare l’escalation messa in atto da Washington, anche se nelle ultime settimane abbiamo assistito ad un maggiore protagonismo di Francia e Germania.
L’Unione Europea sembra aver scelto, anche se comunque in coabitazione con la strategia di destabilizzazione e penetrazione statunitense, lo strumento della Troika e delle istituzioni economico-finanziarie per cercare di condizionare e orientare la classe dirigente ucraina impostasi con il golpe e poi con lo scatenamento della guerra contro le regioni orientali del Donbass.
Già prima del putsch di un anno fa l’economia ucraina non era propriamente florida, ma nell’ultimo anno la situazione è diventata catastrofica, con il governo che impiega risorse che non ha per sostenere uno sforzo bellico che oltretutto non sta affatto sortendo effetti, con l’inflazione alle stelle, la moneta nazionale svalutata e le casse dello stato praticamente vuote. Basti pensare che le riserve valutarie di Kiev, che un anno fa ammontavano a circa 20 miliardi di dollari, sono ora scese a 8 miliardi (e secondo alcune stime questo dato sarebbe gonfiato...). Il Pil del paese è in caduta libera e il default è stato evitato solo grazie alle continue iniezioni di liquidità da parte del Fondo Monetario Internazionale e delle istituzioni economiche dell’Unione Europea. L’ultima elargizione risale a pochi giorni fa, quando Christine Lagarde ha annunciato un prestito di 40 miliardi di dollari in quattro anni provenienti non solo dal FMI, ma anche dai governi dell’Ue, degli Usa, della Polonia, della Germania, del Giappone e da «investitori privati».
Generosi aiuti che però spingono il paese ancora più a fondo nell’abisso – il popolo ucraino sta già ripagando miliardi di interessi ai propri ‘salvatori’ – e riducono sempre di più la lunghezza del guinzaglio a cui i governanti di Kiev si sono legati. In cambio degli aiuti economici naturalmente i creditori pretendono rapide e draconiane ricette per abbassare il costo del lavoro, svendere a imprese occidentali il patrimonio pubblico e le infrastrutture del paese, cacciare dall’amministrazione statale centinaia di migliaia di lavoratori, aumentare l’età pensionabile e così via. Richieste alle quali i prestanome del governo ucraino rispondono sempre chinando la testa, come quando il premier Arsenj Jatsenjiuk ha affermato che “L'Ucraina adotterà quelle riforme che sono necessarie per ottenere la stabilizzazione economica e finanziaria del paese”. Le conseguenze sociali ed economiche di questo vero e proprio ‘memorandum’ in versione ucraina saranno devastanti. Secondo alcune stime il governo di Kiev dovrà tagliare più di 200 mila dipendenti pubblici e aumentare drasticamente – tra il 200 e il 300% - il prezzo del gas e dell’elettricità erogati a imprese e abitazioni, alzare tasse che gli ucraini non possono permettersi di pagare, causando naturalmente la chiusura di numerose piccole e medie imprese e un aumento notevole della disoccupazione. Una tragedia visto che già molti degli insediamenti produttivi più redditizi sorgono nelle regioni di Donetsk e Lugansk e sono rimasti tagliati fuori a causa della folle campagna russofoba e militarista del nuovo regime.
Ad un anno dalle manifestazioni di Piazza dell'Indipendenza e dalla 'rivoluzione', il popolo ucraino non ha proprio nulla da festeggiare.
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