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05/09/2015

La riorganizzazione dello spazio mondiale

Dopo il parziale insuccesso dell’ipotesi monopolare Usa, si avverte un tentativo da più parti di ridisegnare lo spazio mondiale.

In primo luogo, molti segnali indicano la possibile riaggregazione dell’ex Unione Sovietica: e questo è la base dell’accusa a Mosca di premere sull’Ucraina a questo fine, mentre Bielorussia ed alcune repubbliche centroasiatiche in un recente passato sono sembrate vicine a riconfluire nel progetto di Federazione fatto ripetutamente balenare dal Cremlino. Molte delle probabilità di successo di questo progetto si giocano sulla capacità di Putin di superare la crisi ucraina senza troppi danni.

Nello stesso tempo, le rivolte nel mondo arabo – uno degli effetti più vistosi dello shock da globalizzazione – ed il sorgere del Califfato, hanno rotto un equilibrio consolidato ed aprono la strada a diverse soluzioni. Sin qui le rivolte hanno colpito i paesi repubblicani che hanno avuto regimi nazional-militari (Egitto, Siria, Libia, Tunisia, Yemen), mentre hanno risparmiato le monarchie (Arabia Saudita, Emirati, Marocco, Giordania). Le elezioni svoltesi in questi anni (Tunisia, Egitto) hanno registrato significativi successi delle liste islamiste, e forti gruppi fondamentalisti sono emersi in Nigeria (Boko Haram) e Libia, quel che fa temere una aggregazione di tipo panislamico.

Questa ipotesi, tuttavia, (al di là delle fratture interne allo stesso mondo islamico-sunnita) trova due forti controtendenze: da un lato delle componenti più aperte ad una soluzione di tipo democratico simile (ma non identica) al modello occidentale, quelle di tipo socialista (i Pc di Egitto e Tunisia) e le minoranze cristiane (copti egiziani e caldei iraniani), dall’altro il concorrente nel progetto di “califfato sciita” iraniano. Infatti, la rivolta in Barhein di tre anni fa ebbe una netta ispirazione sciita, così come forti componenti sciite operano nella rivolta siriana (dove, peraltro, è al potere la frazione alauita, pur sempre una costola del movimento sciita); d’altro canto, si prospetta l’ipotesi di un “grande Iran” che annetta le province sciite di Iraq, Afghanistan e Pakistan. A sua volta, questa ipotesi di “califfato sciita” deve fare i conti con la perdurante presenza americana nell’area.

In questa complessa partita è possibile che ritrovi spazio la soluzione “bonapartista” dell’esercito, sul modello kemalista o nasseriano. In Egitto, per ora è la soluzione che è passata: l’esercito è anche il maggior imprenditore economico del paese ed, al momento, è saldamente al potere. E in questo senso potrebbe andare anche un intervento turco in Siria. Dunque, una partita aperta che, intanto, tiene sotto pressione i prezzi petroliferi.

Ovviamente, centrale in questo gioco è la revisione degli indirizzi strategici Usa. C’è chi pensa che sia stato l’enorme debito pubblico ad aver definitivamente avviato la decadenza degli Usa e c’è chi, invece, pensa che ciò sia dipeso dal sogno di un impero monopolare ed indica l’accettazione di un ordine policentrico come via d’uscita, rinunciando all’egemonia propria dell’”era americana” per preservare una posizione di preminenza relativa, altrimenti del tutto pregiudicata.

La Presidenza Obama ha avviato un ripensamento della strategia generale degli Usa che non rinuncia al sogno imperiale ma lo riconsidera.

Durante la guerra fredda, gli Usa costruirono la loro egemonia su un sistema di alleanze (Nato, Cento, Seato ecc.) che accerchiavano il blocco socialista e ricorrevano più alla deterrenza che all’uso diretto della forza. Un sistema che, valorizzando gli alleati, ricorda da vicino il periodo  giulio-claudio dell’Impero Romano, per riprendere l’analisi di Edwuard Luttwak. Con le presidenze dei due Bush e del “repubblicano di complemento” Clinton, si affermò un modello più rigido: forte presidio dei confini, maggiore propensione all’uso della forza, marcato unilateralismo e marginalizzazione di clientes e foederati. Un modello che fa pensare al periodo antoniniano di Roma. Obama ha cercato di avviare l’uscita dai conflitti iniziati dal suo predecessore e di recuperare il rapporto con gli alleati. Il segnale più vistoso di questa tendenza si manifestò con il summit Nato a Lisbona (19-20 novembre 2010) che approvò  lo “Strategic concept for the defence and security of the members of the North Atlantic Treaty Organisation” che si riassume nell’estensione degli obblighi di appartenenza all’organizzazione anche all’intervento contro stati che supportano organizzazioni terroristiche alla difesa delle rotte petrolifere ed alla “gestione, prevenzione e contenimento” di crisi  di tipo vario, pandemie ecc.

In pratica la Nato, da alleanza territoriale il cui scopo era quello di difendere un’area ben definita, si trasforma in una sorta di “alleanza expeditonary” pronta ad intervenire in qualsiasi parte del globo venga minacciata la sicurezza dei suoi membri. Questa soluzione sposterà ancora di più il baricentro dell’Alleanza verso gli Stati Uniti e i loro specifici interessi che, “fuori area”, non sempre coincidono con quelli dell’Europa e viene a cadere ogni residua velleità di quest’ultima di affrancarsi, almeno in parte, dalla dipendenza da Washington in tema di sicurezza, poiché certamente non vi saranno sufficienti risorse residue da assegnare ad iniziative come la Csdp (Common Security and Defence Policy).

Con una Nato dalle competenze tanto allargate, gli Stati Uniti potranno richiedere  in molti casi il supporto dell’Alleanza Atlantica anziché ricorrere alle “coalition of the willing” e, pertanto, sarà più difficile chiamarsi fuori per gli alleati che non intendano profondere risorse economiche, militari e politiche in missioni che non ritengano corrispondere ai loro specifici interessi (come fu per Germania e Francia  nel vaso di Iraqi Freedom) o che preferiscano evitare la fase “dura” del conflitto e partecipare solo alla stabilizzazione.

Dunque, un’Europa che torna clientes (più che foederata) degli Usa e che assume su di sé il compito di “prima linea” per la stabillizzazione dell’area africana e mediterranea. Pochi mesi dopo ci furono la guerra di Libia e l’intervento in Costa d’Avorio, quindi in Mali, condotti dai francesi e (nel caso libico) inglesi. In entrambi i casi c’erano anche specifici interessi delle due potenze europee (il petrolio libico ed il cacao ivoriano), ma è comunque notevole che, per la prima volta dal 1956, Londra e Parigi abbiano operato insieme in un teatro di guerra. Ed è altrettanto degno di nota che la Germania sia restata estranea ad entrambe le imprese.

Dunque, degli Usa che tornano al modello precedente, mutatis mutandis, di ispirazione giulio-claudia, cosa tanto più rimarchevole in un momento in cui gli Usa sono costretti a tagliare sensibilmente i loro bilanci militari. Ed è in questo rimodellamento della mappa mondiale che occorre inserire le evoluzioni interne ad Europa e Cina.

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