Sono quattro i segnali di crisi che, sul piano globale, Ernesto Galli della Loggia individua nel testo di un suo editoriale apparso il 31 Agosto sulle colonne del “Corriere della Sera”:
1) Le migrazioni di massa (che non riguardano soltanto l’Europa; si pensi ad Australia e Sud Africa);
2) La “tempesta demografica” con al centro l’Europa dove i tassi di natalità stanno vertiginosamente scendendo;
3) Le trasformazioni climatiche;
4) I mutamenti radicali nell’ambito del lavoro, dovuti a un’incapacità strutturale di assorbire l’offerta di lavoro lasciata disponibile dall’innovazione tecnologica.
Della Loggia individua una debolezza strutturale nella capacità di risposta a livello di governi a questo tipo di problematiche, affidando la causa di questo deficit all’assenza di istanze, organismi deputati a riflettere, prevedere, e magari programmare su tempi medio – lunghi.
Individua, inoltre, nel “vincolo di consenso” un limite paralizzante, perché ostacolerebbe (attraverso la necessità di rendere conto all’opinione pubblica in termini elettorali) la capacità di affrontare le questioni critiche che implicano scelte di valori eminentemente individuali. Di conseguenza la democrazia liberale così come la conosciamo adesso (che – appunto – impone il “vincolo di consenso”) ha difficoltà a influire in senso prescrittivo sul modo d’essere e di agire dei singoli.
Nella sostanza questo stato di cose mette in luce due gravi punti deboli emergenti nel regime politico e nella società in cui viviamo:
1) Il primo consiste nell’assenza di un sentimento collettivo di appartenenza e di destino, riferito a un ethos condiviso dai più;
2) La seconda cosa che manca, sempre secondo Della Loggia, è l’esistenza di un potere definito “neutro”, cioè di un potere designato sì, ma non solo per via politica, e indipendente dalle scadenze elettorali. L’esempio che viene svolto, nell’occasione, è quello della Corte Suprema Americana, intesa quale soggetto in grado di svolgere una funzione forte di orientamento sull’opinione pubblica e, anche, di essere in grado di sospendere l’iter deliberativo degli organismi elettivi ed esecutivi.
In questo, che è semplicemente un articolo sia pure apparso su di un giornale di grande autorevolezza, si riaffaccia il tema della politica quasi come “lusso” all’interno di una società complessa come quella attuale, in tutte le parti del Pianeta sia quelle a condizioni di benessere “affluente”, sia quelle dove milioni (se non miliardi) di persone vivono in condizioni di inaudito sfruttamento e ai limiti della sopravvivenza. In un quadro complessivo di enormità di diseguaglianza.
Risulterebbe così un limite anche la stessa “democrazia governante”, all’interno del cui modello il grado di rappresentatività sociale, politica, ideologica, risulterebbe ridotto al minimo: a una pura parvenza di facciata per consentire al governo degli “ottimati” (una Corte Suprema) di decidere i destini del mondo, annullando così anche la stessa funzione degli Stati nazionali.
Quello degli “Stati Nazionali” è un altro nodo che si intende affrontare attraverso la via di adozione di meccanismi globali da realizzarsi attraverso trattati come il TTIP all’interno dei quali i più forti (e le lobbies che dominano la politica dei più forti) possano esercitare, al di fuori di qualsivoglia schema di confronto democratico, il loro potere.
Nella sostanza il capitalismo per rinnovare sé stesso e mantenere le proprie prerogative potrebbe anche buttare a mare il sistema politico che ne ha caratterizzato lo sviluppo negli ultimi due secoli (a prezzi altissimi, insopportabili: è bene ricordarlo sempre) e sviluppare una nuova forma di Leviatano capace di porre il sistema, almeno nei suoi punti alti, al riparo dalla possibilità di fastidiose contestazioni.
Per i punti bassi poi c’è sempre la guerra, strumento utile per risolvere i contrasti e affamare i popoli: guerra, magari, mascherata da “esportazione della democrazia” o da lotta contro gli integralismi assassini.
Il capitalismo non è, comunque, un’entità astratta: i suoi reggitori, a tutti i livelli, si rendono conto delle difficoltà storiche che possono portare anche ad un suo esaurimento e rispondono stringendo i cerchi di quella democrazia liberale e borghese che sempre avevano vantato come il sistema “meno peggio”, il solo orizzonte dei “migliori dei mondi possibili”.
L’eccesso di domanda complessivo, ben esemplificato dalle vicende riguardanti i migranti, l’ambiente, la differenza di genere, all’interno di quel quadro di insopportabili diseguaglianze complessive e la necessità di intensificare vieppiù lo sfruttamento del lavoro e del consumo stanno portando alla considerazione della necessità di limitare lo sviluppo dello scontro e del confronto sociale e politico.
All’orizzonte si situano nuove guerre e nuove (definiamole così per abitudine) dittature, probabilmente inedite nella loro forma politica.
In realtà, quella che manca è la risposta al tema davvero dominante: quello delle diseguaglianze globali e collettive.
La sinistra ha dismesso l’ipotesi di presentare una visione alternativa della società, fondata su di una radicale appartenenza alla rappresentanza delle contraddizioni sociali emergenti.
E’ questo il punto sul quale riflettere, avendo coscienza della realtà all’interno della quale ci troviamo e delle risposte per il futuro che i ceti dominanti stanno pensando e preparando.
E’ necessaria una rielaborazione teorica e politica del socialismo e del comunismo che si verifichi nella piena consapevolezza dell’imperfezione dei modelli statuali e di governo del loro inveramento a cavallo degli anni centrali del XX secolo ma con l’intento di predisporre sul piano della fase storica un contraltare di grande spessore sul piano teorico della cultura e su quello immediato della pratica politica.
Forse è il caso di ricominciare a pensare meglio a quella che è stata la nostra storia, partendo dal comprendere quanto di pericoloso ci sia nella strategia di quello che rimane l’avversario di classe e come questo pericolo che vale per tutta l’umanità debba essere contrastato senza esitazioni e/o collusioni fino in fondo.
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