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10/02/2017

“L’alternativa al suicidio è la lotta collettiva”

Intervista realizzata da Radio Città Aperta.

Alvise, in questi giorni si sta parlando tanto, spesso a sproposito, della drammatica lettera con cui Michele, il precario 30enne di Udine, ha spiegato la sua scelta di farla finita, di togliersi la vita esprimendo un fortissimo atto d'accusa al sistema in cui viviamo. Non ci mettiamo a rileggere il testo della lettera, di per sé straziante, ma vorremmo soffermarci insieme a te, che comunque hai anche scritto e sei anche intervenuto sul tema, su questa accusa di "alto tradimento" che lui lancia in modo molto dettagliato e puntuale nei confronti di un sistema che è quello capitalistico, quello precarizzante, in cui viviamo. C’è anche la citazione diretta del ministro Poletti alla fine, quindi sta parlando proprio del mondo in cui viviamo noi qui in Italia. No, Alvise?

Intanto buongiorno a tutti. Noi siamo voluti intervenire su questa questione pubblica subito perché in prima persona – tutti, più o meno – ci siamo subito rivisti molto in Michele. La lettera di questo ragazzo di 30 anni, molto forte, in realtà ci dice tutte un sacco di cose che praticamente tutti sappiamo e la cosa ci ha colpito molto. Fondamentalmente tutti sappiamo che siamo una generazione estremamente precaria, che dietro una retorica sempre più assassina sull’impegno e sul sacrificio, sull’autoimprenditorialità, su questo sogno sempre più lontano di aspettative meritocratiche, in realtà ci viene mostrata la quotidianità di una realtà sempre più impoverita, sempre più difficile da tenere sul piano delle aspettative. Rispetto alla lettera di Michele... Michele parla spesso, e in modo molto forte, di quello che lui voleva fare e del fatto che, non riuscendo a farlo, non per colpa sua – in questo caso non si introietta la colpa in modo introspettivo – esce fuori, accusa un sistema che, nonostante il suo impegno, lo porta ad una soluzione così drastica. Qui viene fuori questa dicotomia fra le aspettative che un mondo diffonde all’interno della società e invece quello che poi è effettivamente la realtà concreta delle cose. Questa dicotomia è molto sentita; è molto del sentimento che ha portato anche a quel voto imprevedibile del 4 dicembre, alla Brexit... E’ il processo storico di un’egemonia che sta crollando, un discorso prima dominante che però non regge più al contatto con la materialità. Questi episodi non sono isolati. Qualche giorno fa un altro ragazzo di 22 anni, di Mantova, ha fatto la stessa scelta. Sono, fondamentalmente, tutti episodi che se non riusciamo ad invertire la tendenza non possono che aumentare. Invertire la tendenza significa che dobbiamo effettivamente costruire un’alternativa che esca fuori da questa logica individuale dominante, dove il successo è prettamente individuale, ma anche la sconfitta è prettamente individuale. Bisogna individuare dei responsabili. In questi giorni, proprio ieri, è uscito un articolo sull’Espresso, di Federica Bianchi, che si intitola “Michele, una gioventù senza coraggio”, che invece fa, appunto, il discorso contrario. Accusa Michele del fatto che non si fosse rimboccato le maniche, che volesse troppo e che questo mondo andava accettato; perché questo mondo fa schifo, però bisogna sporcarsi le mani. Questo è una retorica di odio, nel senso c’è proprio un odio che viene diffuso da determinati ambienti nei confronti di quelli che stanno più in basso... Sono le stesse retoriche che poi generano questo tipo di episodio qua. Bisogna invertire questa tendenza ed individuare dei responsabili. Però questa cosa qua – l'inversione di tendenza – bisogna farla collettivamente.

Alvise, mi soffermo su due aspetti: il primo è questo articolo sull’Espresso che ritira fuori quella ignobile, insopportabile, retorica – da un lato un maggiore impegno e dall’altro la diminuzione delle aspettative. Anche a prescindere da Michele. E poi il titolo che avete dato all’articolo pubblicato come “Noi restiamo” anche su Contropiano.org: “Schiavi o morti: non è un’alternativa accettabile”. Forse è il momento di iniziare a raccontare in modo corretto quello che sta avvenendo, che è una riduzione all’opzione zero scelte per almeno tre generazioni. O accetti la schiavitù del precariato, rinunci alle tue aspettative e ti accontenti di quello che ti viene concesso, o altrimenti puoi solo scegliere di morire, perché è di questo che si sta parlando. Non è una iperbole, forse, quella che avete messo nel titolo...

Rispondo in ordine. L’articolo della Bianchi è esattamente la citazione di Sanguineti che abbiamo deciso di mettere in apertura del nostro articolo; “restaurare l’odio di classe”, dalla nostra parte, significa individuare dei responsabili veri. Quando penso a restaurare l’odio di classe mi viene in mente qualche mese fa, quando Farinetti alla Leopolda ha detto “noi stiamo antipatici, dobbiamo farci amare”. Queste che in realtà sembrano due battute dette un po’ a caso, in realtà sono un progetto per un’egemonia che vorrebbero riconquistarsi e che su molte cose ancora hanno. Però è sempre più evidente che è necessario individuare i responsabili, quelli che portano anche ad episodi come questi. Il titolo quindi, “Schiavi o morti: non è un’alternativa accettabile” perché, effettivamente, rifiutiamo in pieno sia l’ipotesi della schiavitù, ossia vivere all’interno di questa logica meritocratica dell’impegno e del sacrificio che però, in realtà, va a vantaggio soltanto di poche persone; e dall’altra altrettanto assolutamente rifiutiamo l’ipotesi dell’abbandono, anche fisico, di questo pianeta piuttosto che avviare collettivamente – Leopardi direbbe una “social catena” – una costruzione di un’alternativa collettiva contro una determinata classe che ci porta anche a queste soluzioni drastiche.

Tra schiavi o morti c’è insomma un’alternativa, quella di sviluppare consapevolezza, di mettere in campo interventi collettivi per cercare di modificare la realtà. Questa è l’unica alternativa che abbiamo, no?

Certamente la questione che ci siamo posti è: da una parte chi ci vuole divisi, chi ci vuole uno contro l’altro, chi ci vuole seguire una logica individualista, individuale, è una classe, un gruppo. Loro sono ben uniti. Poi hanno dei contrasti interni come classe, però quando serve sanno assolutamente unirsi. Noi invece, dal basso, non riusciamo a produrre questa stessa dinamica, non riusciamo ad unirci neanche quando è nei nostri interessi più materiali. Quindi per noi la risposta collettiva è necessaria e fondamentale, perché altrimenti non si riesce nemmeno a dare una spiegazione, soprattutto ci si trova in quello sconforto, in quella sensazione di essere persi individualmente; perché non si hanno gli strumenti per affrontare un mondo che è veramente difficile là fuori. Individualmente, secondo noi, la risposta non ci può essere se non dalla parte della schiavitù o, dall’altra, la morte.

Bene Alvise. Ti ringraziamo per l’intervento, buon lavoro.

Grazie a voi. Ciao a tutti.

vedi anche:

http://contropiano.org/interventi/2017/02/08/schiavi-morti-non-unalternativa-accettabile-088707

http://contropiano.org/news/politica-news/2017/02/07/michele-trentenne-precario-suicida-appartengo-generazione-perduta-088667

Fonte

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