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16/02/2017

Una anomalia nella storia degli anni ’70, capace di riprodursi

Nei “formidabili” anni ‘70 non ci si poteva certo lamentare della scarsità di militanti politici, né – spesso – della loro qualità media. Non è un giudizio negativo sui “ragazzi d’oggi”, ma una valutazione obbiettiva del ruolo decisivo che hanno “i tempi” (la “fase storica”) nel formare, far maturare rapidamente o meno, quelle generazioni che solo allora cominciarono ad essere chiamate “i giovani”. Prima d’allora, infatti, si passava direttamente dall’adolescenza alla maturità, dal non lavorare (o dal fare “gli apprendisti” a 500 lire la settimana) all’avere un lavoro né stabile né sicuro (ma era facile trovarne un altro), dall’essere figli a diventare genitori. Il rito di iniziazione, almeno per i maschi, era il servizio militare, che metteva forse involontariamente insieme ragazzi di ogni regione, li “omogeneizzava” depurandoli di buona parte del campanilismo (non c’era spazio per stronzate leghiste, in quel tempo), li restituiva al termine dei 15 mesi alla società come “uomini” pronti o costretti ad assumersi le responsabilità della vita.

Si diventava insomma adulti prima, senza trascorrere 10 o 15 anni nell’attesa di costruirsi una vita propria. Non era merito di quei ragazzi, neanche in quel caso. Tanto che i loro genitori – la generazione che era sopravvissuta alla Guerra – li consideravano tutto sommato meno “maturi” di quanto loro (non per merito o per scelta) erano stati obbligati ad essere.

La lunga premessa sul succedersi delle diverse generazioni serve ad inquadrare più chiaramente le coordinate storiche in cui nasce, vive e incredibilmente sopravvive per oltre 40 anni Una storia anomala, ovvero un’organizzazione – l'Opr – del tutto dentro alla tradizione comunista che si distingue però fin da subito sia dal Pci (già avviato da tempo sulla via della socialdemocrazia), sia dalle altre formazioni della sinistra extraparlamentare. Sia, soprattutto, dalle sette vagamente millenaristiche che, anche loro, a volte sopravvivono a qualsiasi temperie storica; per manifesta inutilità.

E questo nonostante sia rimasta a lungo una formazione strettamente romana, tanto da essere conosciuta fino ad anni tutto sommato recenti con il nome iniziale: Organizzazione Proletaria Romana. Le ragioni più visibili all’origine di questa sopravvivenza sono essenzialmente due: una giustificata ossessione per il metodo, per l’attenzione all’aspetto teorico da cui discende un’analisi il più possibile scientifica della situazione globale e italiana (che a un osservatore non comunista potrebbe sembrare persino eccessiva rispetto alle dimensioni dell’intervento effettivo), e la perdurante attenzione alla costruzione di radicamento sociale nel conflitto realmente esistente. Da cui è discesa un’attività vertenziale complessa – prima in alcuni luoghi di lavoro e nelle occupazioni della casa degli anni ‘70, poi nel sindacalismo di base – che è infine maturata come sindacato confederale a livello nazionale, come le RdB.

Non è un caso che di questa organizzazione politica, in fondo piccola e molto “territorializzata”, si possa fare una storia, mentre di molte altre sia o impossibile oppure frantumata in memorialistica da “vecchi capi” in lite tra loro. Qui non c’è da nascondere nulla, non ci sono pagine di cui vergognarsi; esiste ancora una unità non banale tra le persone che le hanno dato vita (anche se, ovviamente, non tutti sono rimasti dentro questo percorso), un giudizio condiviso sulla strada fatta insieme. Quasi un piccolo miracolo, nella storia di tutte le sinistre post '68...

Il primo volume di questa storia ripercorre momenti e scene conosciute, spesso dimenticate (il gioco delle parti tra palazzinari romani, fascisti prezzolati come guardioni privati e polizia come “rinforzo” istituzionale che prepara gli scontri di San Basilio in cui muore Fabrizio Ceruso), le assemblee operaie e studentesche, gli scontri e il fermento sociale poi mai più rivisto; in quelle dimensioni e con quella radicalità.

Un mix militante che mette insieme, con l’inevitabile fatica del verificarsi facendo, collettivi operai, universitari e occupazione delle case. Ed è proprio l’occupazione di Casalbruciato l’epicentro che consente la “fusione calda” tra componenti sociali diverse e l’inaugurazione di un metodo vertenziale che diventerà poi tradizionale per chi attraversa questa organizzazione, ma quasi senza paragoni con le altre – innumerevoli – occupazioni della casa da allora in poi.

Le occupazioni degli ultimi 30 anni somigliano a quelle solo esteriormente. E non solo perché i migranti hanno preso il posto dei baraccati – in genere “meridionali” – nei numerosi “borghetti” della periferia romana, che nulla avevano da invidiare alle favelas sudamericane. In tutte l’obiettivo è vincere, ossia dare una casa a chi ne ha bisogno. Ma in quel caso – come in altri tentativi finiti meno bene – si instaura un’azione militante – per così dire – “multilivello”, che vede entrare in gioco l’analisi degli assetti proprietari, il conflitto con i palazzinari e i loro referenti politici (Dc e Pci, con l’ala marciante del Sunia), i rapporti con la popolazione residente. E tutto questo produce risultato sociale (le case vengono assegnate agli occupanti), risultati politici (l’Opr nasce e si impone, nel suo piccolo, come uno dei soggetti con cui bisogna fare i conti).

Lì nasce infatti quella “cultura di organizzazione” che era declinata in modo molto differente nelle altre formazioni della sinistra extraparlamentare d’allora, in genere decisamente più “movimentiste” e “di massa”, meno attente alla formazione dei militanti (che trasmigravano infatti con grande frequenza dall’una all’altra, specie dopo l’inizio del “riflusso”, nel 1973). Una cultura che in quei tempi – che sono durati in pratica fino ad oggi – non garantiva affatto una dimensione “larga” del quadro militante.

A fare la differenza è soprattutto il referente sociale privilegiato, operaio-popolare, che pagherà alla lunga soprattutto sul fronte sindacale, mentre il “fronte politico” – senza rifare tutta la storia degli ultimi 40 anni, che potete trovare nel volume – viene molto sacrificato; persino per scelta, ad un certo punto (la nascita di Rifondazione, che per qualche tempo diventerà polo d’attrazione per tutti i residui organizzativi degli anni ‘70 e successivi, riducendo quasi a zero lo spazio politico sulla sinistra).

Un punto di svolta è il ‘77, in cui matura lentamente l’estraneità della dinamica “movimentista autonoma” – tutta incentrata sullo schema ricorsivo ed entropico “mobilitazione-repressione-mobilitazione contro la repressione” – rispetto a quelle della classe realmente esistente. L’Opr, che pure ha di frequente i suoi prigionieri, prende alla fine dell’anno la decisione di concentrare le forze su questo fronte “di classe”, pur continuando a produrre momenti alti di solidarietà verso prigionieri politici di qualunque organizzazione, confinati, colpiti dalla repressione in varie forme. E’ un certo metodo del conflitto a non funzionare più. E lo si vede anche in alcune cooperative sociali, dove “alcuni soci teorizzavano il rifiuto del lavoro mentre gli altri... lavoravano per tutti”. Difficile mostrare con più evidenza empirica la differenza tra impostazioni altrimenti qualificabili come solo ideologiche...

E’ un certo metodo del conflitto a non funzionare più. E il non ammetterlo consumerà rapidamente energie sociali gigantesche, nel frattempo aggredite alle spalle da un fiume di eroina a buon mercato, spacciata spesso dai fascisti e “stimolata” dai servizi (l’“operazione Bluemoon”). Un modello repressivo-dispersivo che veniva da lontano, dalla Cia che aveva sperimentato quel metodo con le Black Panthers.

La scelta di immergere nella classe il proprio intervento si ripercuote poi in tutti gli anni successivi, in ogni nuovo “tema politico” (dai movimenti dei disoccupati a quello delle donne), cercando sempre di superare la via facile dei “diritti” sganciati dagli interessi sociali. Che alla lunga è diventata “normalità” nella sinistra italiana, facendola evaporare là dove era nata e cresciuta: nei luoghi di lavoro e nel quartieri popolari.

Si potrebbe andare avanti a lungo con gli esempi, ma per questo c’è appunto il libro. L’elemento storico da evidenziare è invece quello, diciamo così, “strutturale” di una scelta politica costantemente controcorrente rispetto al “senso comune” dei movimenti di questi 40 anni, sempre oscillanti tra “antagonismo” ginnico e puro calcolo elettorale. Un non adeguarsi alla medietà che ovviamente ha un prezzo altissimo: un numero di militanti in definitiva assai ridotto e una “territorialità ristretta”, per alcuni decenni. Un prezzo, ripetiamo, pagato consapevolmente per mantenere reattivi e funzionanti due capisaldi dell’azione politica di lungo periodo: l’analisi teorica del mondo reale e l’attività vertenzial-sindacale.

L’anomalia dell’andare controcorrente ha però alla lunga prodotto il suo vantaggio strategico: un sapersi orientare nel mondo stravolto dal capitale e istituzioni sovranazionali e un radicamento sociale assolutamente rilevante, al confronto del nulla cui è stata intanto ridotta la “sinistra realista”, quella che bertinottianamente fingeva di interloquire con i movimenti mentre contrattava (poche) poltrone per sé.

Il libro "una storia anomala", verrà presentato oggi a Roma (Aule Blu dell'Università La Sapienza, ore 17.30). Ma si tratta solo del primo volume, quello appunto dedicato al decennio degli anni Settanta. Ne seguiranno altri due dedicati ai decenni successivi.

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