Sulla crisi del Golfo e l’isolamento del Qatar entra a gamba tesa
Donald Trump. Con l’impredivibilità che pare contraddistinguere la sua
politica estera, il presidente Usa passa dall’accusare Doha di
finanziare il terrorismo a esercitazioni congiunte e accordi di vendita
di armi con l’emirato isolato.
Il 6 giugno, il giorno dopo la rottura delle relazioni diplomatiche
con il Qatar da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, Bahrain e
Yemen, Trump aveva espresso la sua posizione con un tweet:
“Durante il mio recente viaggio in Medio Oriente ho detto che non c’era più
spazio per il finanziamento dell’ideologia radicale. I leader hanno
indicato il Qatar”. “Bello vedere che la visita in Arabia
Saudita con il re e 50 paesi dà già dei frutti. Avevano detto che
avrebbero preso delle misure forti contro l’estremismo e stavano
puntando al Qatar. Forse questo sarà l’inizio della fine all’orrore del
terrorismo”.
Un tweet che sembrava un endorsement se non addirittura una
rivendicazione e cui erano seguiti attestati di stima verso il
capopopolo saudita, senza pronunciare parola sul ruolo altrettanto
incendiario di Riyadh nel far crescere i gruppi islamisti radicali nella
regione.
Ieri però gli Stati Uniti si sono riposizionati. Mentre l’Onu
dichiarava il sostegno alla mediazione del Kuwait e del Marocco, che si è
proposto in questi giorni come negoziatore della crisi, due
navi da guerra Usa sono arrivate a Doha per un’esercitazione congiunta
con la marina dell’emirato. È qui che viene ospitata la più grande base
militare statunitense in Medio Oriente, con i suoi 11mila soldati e
oltre 100 caccia.
Nelle stesse ore Washington firmava con Doha un accordo per
la vendita di trentasei jet F15 per un valore totale di 12 miliardi di
dollari. Ad apporre la firma sull’intesa sono stati il ministro
della Difesa del Qatar Khalid al Attiyah e il capo del Pentagono Jim
Mattis. Secondo quanto si legge nel comunicato Usa, questo “incrementerà
la cooperazione alla sicurezza e l’interoperabilità tra Stati Uniti e
Qatar”. Da parte sua Attiyah ha definito l’accordo il segno di “un
impegno di lungo periodo dello Stato del Qatar nel lavoro congiunto con
gli alleati negli Stati Uniti per migliorare la cooperazione militare
nella lotta all’estremismo violento”.
La Casa Bianca prova a tenere il piede in due staffe. Vero è
che nell’amministrazione Usa c’è chi non ha mai optato per la rottura
definitiva: il segretario di Stato Tillerson non ha rilasciato
dichiarazioni pesanti, ponendosi nell’ombra come mediatore della crisi.
Da subito Tillerson ha avvertito delle “conseguenze umanitarie” del
blocco ma soprattutto dell’impatto economico nel business
statunitense e occidentale, oltre “alle azioni militari degli Usa nella
regione e nella campagna contro l’Isis”.
Di certo questa crisi che potrebbe ridefinire la rete di alleanze in
Medio Oriente, all’interno del fronte sunnita. Tra i paesi che, per
ragioni di appartenenza politica, si sono subito schierati con il Qatar
c’è la Turchia che prosegue nel lavoro diplomatico per ricucire gli
strappi. Ieri il ministro degli Esteri turco Cavusoglu è volato a
Doha dopo una visita in Kuwait, altro paese del Golfo intenzionato a
trovare una soluzione in tempi brevi. Cavusoglu ha parlato di
“dialogo e pace” come strumenti diplomatici da utilizzare, dopo aver
inviato migliaia di soldati nella sua base a Doha a sostegno
dell’alleato qatariota.
Fonti turche parlano poi di una telefonata, prevista per i prossimi
giorni, tra il presidente Erdogan e Trump per affrontare insieme la
crisi del Golfo. Non solo: a breve si dovrebbe tenere un trilaterale tra
Doha, Ankara e Parigi.
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