Dedicando due pagine piene – la due e la tre – allo sciopero dei trasporti del giorno precedente, il Corriere della Sera di sabato 17 giugno lancia l’ennesima crociata contro il diritto di sciopero e di associazione sindacale. Decodificare il messaggio di fondo – cosa aspettiamo a metterli fuorilegge? – è facile, ma vale la pena di leggere fra le righe per approfondirne alcuni aspetti. Partiamo dai titoli. Il pezzo di sinistra, quello che fa la cronaca degli effetti dello sciopero, inalbera sopra il titolo a effetto “Città in coda aerei a terra”, un occhiello che apre così: “Lo sciopero delle sigle minori blocca i mezzi pubblici”, frase che contiene un evidente paradosso: se le sigle sono “minori”, come mai riescono a bloccare i mezzi pubblici e a raccogliere elevate percentuali di adesione da parte dei lavoratori (che a Palermo, rivela lo stesso articolo, hanno toccato il 78%)? Identica considerazione vale per il titolo della pagina di destra, che ospita una lunga intervista al presidente dell’Autorità di garanzia per gli scioperi, Giuseppe Santoro Passarelli: “Bisogna impedire che un sindacatino fermi tutta l’Italia” (sindacatino? Ma allora come fa a fermare tutta l’Italia?).
Il vero problema, sul quale il Corriere glissa, è che “sigle minori” e “sindacatini”, a mano a mano che i lavoratori prendono atto dell’incapacità delle centrali confederali di difenderne gli interessi, tendono a rivolgersi a Cobas, Cub e Unione Sindacale di Base, tanto per citare le sigle più conosciute. Tutto ciò non si traduce direttamente in una massiccia trasmigrazione di iscritti dalle confederazioni storiche ai sindacati di base, ma fa sì che una percentuale significativa di iscritti alle prime – ma anche di lavoratori non iscritti ad alcuna sigla – rispondano agli appelli di lotta dei secondi. Un processo che, se da un lato autorizza Giorgio Cremaschi (ex dirigente nazionale Fiom passato alla Usb) a sperare nella rinascita di un vero sindacato di classe, dall’altro lato terrorizza i sacerdoti del pensiero unico liberista che monopolizzano le pagine del Corriere (e degli altri media di regime).
Costoro avevano sperato, grazie alla “domesticazione” di CGIL CISL e UIL e al loro allineamento agli interessi aziendali e alle politiche economiche dei governi liberisti, di poter ottenere con mezzi pacifici quell’annientamento totale della resistenza sindacale che la Tatcher ha realizzato attraverso un feroce scontro frontale. Ma ora che il discorso rischia di riaprirsi, non esitano a chiamare alle armi, e il presidente dell’Autorità “garante” (garante di chi?!) per gli scioperi risponde subito all’appello. Lo sciopero di ieri era legittimo, dichiara, perché rispettava le regole. E quindi? Quindi bisogna cambiare le regole in modo che non sia più tale! Il giornalista gli chiede se uno strumento per evitare gli scioperi “indisciplinati” potrebbe essere un referendum preventivo fra i lavoratori, ma Santoro Passarelli replica che così si rischia di “complicare le cose” (già: dopo il referendum Alitalia, per tacere di quello sulle riforme costituzionali, l’establishment non nutre più alcuna simpatia per questo strumento!). La soluzione? “Va stabilito il principio che non tutte le sigle sindacali possono proclamare lo sciopero, ma soltanto quelle che hanno una certa consistenza”.
Ma quale consistenza? Numero di iscritti o seguito reale? Vedrete che una formula per rendere gli scioperi di fatto (anche se non formalmente) illegali si troverà. Auspicabilmente con l’appoggio delle sigle confederali, a partire da quella CISL la cui segretaria, come ricorda compiaciuto Dario Di Vico nel commento a fianco dell’intervista, ha sprezzantemente liquidato come “populismo sindacale” il voto dei lavoratori Alitalia. CGIL e UIL prendano esempio dalla Furlan e, abbandonata ogni “pigrizia”, si facciano parte attiva per stroncare le iniziative dei “sindacatini”. Un vero grido di guerra, condito da un appello demagogico agli “interessi dei più deboli” vale a dire di precari e partite Iva che sono i più danneggiati da questi scioperi. Di Vico ci ammannisce questa litania un giorno sì e l’altro pure, come se i precari non fossero il prodotto – e le prime vittime – delle politiche economiche di cui proprio lui è uno dei più solerti piazzisti. Infatti, nello stesso articolo, gli scioperi contro le privatizzazioni vengono bollati come “ideologici”, dimenticando che l’ideologia delle privatizzazioni a ogni costo è quella che ci ha regalato i disastri di Ilva e Alitalia, servizi sempre più cari e inefficienti, disoccupazione, povertà e precarietà di massa. Ecco perché si vuole ridurre all’impotenza chi denuncia queste verità e incita alla ribellione.
Ps. All’atto di consegnare il pezzo leggo (“Diritto di sciopero, serve una norma contro la dittatura delle minoranze”, Corriere del 19 giugno) che l’ineffabile Pietro Ichino – assiduo promotore di una versione italiana del New Labour, nonché acerrimo nemico dei diritti dei lavoratori – difende, a differenza del garante, la soluzione del referendum preventivo che, assieme alla limitazione del diritto di assemblea sindacale, è un punto qualificante della sua “riforma degli scioperi” datata 2015 e finita su un binario morto. Cambiano le proposte tecnico giuridiche, ma l’obiettivo resta lo stesso: imitare l’Inghilterra del duo Tatcher-Blair (se possibile prima che Corbyn riesca a liquidare la loro eredità forcaiola).
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