Accade
a volte che la capacità intimistica e il respiro narrativo di un buon
romanzo possano essere efficacemente riprodotti in una storia a fumetti.
Talvolta, poi, una striscia può saper riassumere e rendere
intelligibili interi processi storici, magari complessi. Solo raramente,
tuttavia, una graphic novel riesce a ottenere l’uno e l’altro risultato. Da questo punto di vista, Una storia cinese di Li Kunwu e P. Ôtié è un caso emblematico.
La
casa editrice Add ha pubblicato quest’anno il secondo dei tre volumi
cui Li Kunwu ha dedicato molti anni della propria vita, e che al tempo
stesso raccontano una storia familiare e una storia politica. Il punto
di vista è sicuramente una prospettiva d’eccezione. L’autore infatti è
figlio di un importante dirigente del Partito comunista cinese,
militante della prima ora, e ha attraversato l’evoluzione della vicenda
politica e sociale cinese, dalla fine degli anni Cinquanta alla
dimensione dell’oggi.
Nel primo volume, intitolato Il tempo del padre,
il piccolo Xiao Li muove i propri primi passi in una collettività che
dona sé stessa al grande timoniere, rispetto al quale la sfera della
vita familiare e quella scolastica costituiscono elementi di crescita
collaterali, non cruciali. Il progetto di trasformazione sociale, della
transizione dalla vecchia Cina feudale alla nuova cultura popolare e
contadina, è presentato in tutta la sua durezza, ed è capace di
travolgere molti nessi personali. Il più drammatico è la reclusione del
padre in una scuola di rieducazione politica, dopo l’emersione di
documenti che attestano una discendenza ascrivibile alla classe sociale
dei proprietari terrieri.
Questo secondo volume, Il tempo del partito,
racconta di un’adolescenza affettivamente isolata, ma anche di un
ideale politico mai piegato. Il giovane Xiao Li vive l’esperienza della
carriera militare, ma tutte le sue speranze sono concentrate nella
possibilità di essere ammesso tra i quadri del partito (solo il 3% della
popolazione cinese, negli anni Settanta, era iscritta al partito
comunista). La famiglia è disgregata. La madre lavora in fabbrica, la
sorella è nelle campagne per aiutare i contadini, il padre resta
confinato a lungo, lontano da casa e dal proprio lavoro. Tuttavia, dopo
la morte di Mao, e la condanna della “banda dei quattro”, accusata degli
eccessi della Rivoluzione culturale, trova compimento la resa dei conti
che porterà all’affermazione politica di Deng Xiaoping e della sua
linea riformatrice.
La
famiglia del protagonista, nonostante le sofferenze patite, riesce a
ricomporsi e a ritrovare sé stessa. Al netto dei torti subiti, nulla
scalfisce nei protagonisti la fiducia nel partito e nella Cina. La
famiglia che si ritrova, è in fondo una metafora della nazione.
È questo forse il nodo cruciale di Una storia cinese,
che merita una breve riflessione. L’autore, che ha vissuto da vicino le
drammatiche vicende della trasformazione di questo grande Paese, non ne
nasconde le storture, gli errori (gravissimi), che hanno colpevolmente
determinato la fame, la morte, l’umiliazione di milioni di esseri umani.
Questa denuncia è certamente condotta con atteggiamento ironico, con un
saper prendere la giusta distanza da simboli e sacralità politiche, e
tuttavia senza mai far venir meno rispetto e fiducia nei confronti di
quella grande azione collettiva che fu la Rivoluzione. Certamente fu un
peccato la distruzione dell’arte antica, riconducibile all’epoca
feudale. Fu triste assistere ai bambini che come esaltati andavano nei
negozi a minacciare commercianti o nelle scuole a insultare i docenti
declamando il libretto rosso. Così come folle appare la dinamica
ossessiva con cui ciascuno denunziava pubblicamente i propri vicini per
delle inezie.
Tuttavia,
questo è il punto, il fanatismo popolare e militante parrebbe cogliere
il vero significato della nota affermazione secondo cui la rivoluzione non è un pranzo di gala.
Significa che le masse spesso non discernono, e la forza d’impatto
della rivoluzione consiste proprio in questo, nel concepire in modo
dozzinale alcune parole d’ordine e spingerle all’estremo. Una volta
stabilita la fiducia tra gruppo dirigente e masse, la parola del capo è
legge, i cui effetti non sono però controllabili, né completamente
prevedibili.
Per
il resto vi è anche qualcosa di profondamente e schiettamente
orientale, in tutto ciò, che per noi è piuttosto difficile da cogliere.
L’assoluta fiducia in Mao e nel partito prosegue e si rafforza anche
quando Deng sceglie una strada per perseguire l’emancipazione cinese
attraverso parole d’ordine assai diverse, forse opposte, a quelle del
grande padre. E allora qui l’intima affezione (e rispetto) per i propri
familiari, diventa un unicum
con quella più grande fratellanza che lega l’intera comunità cinese,
che aspira senza esitazioni o dubbi alla grandezza, e che nutre nei
confronti delle proprie istituzioni politiche, e dei propri leader, una fede profondamente radicata.
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