di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Il drone della Cnn che
sorvola Raqqa ovest, entra nei vicoli, perlustra le strade e corre
lungo le pareti semi distrutte dei palazzi ancora in piedi, restituisce
l’immagine di una città fantasma. I civili ci sono, sarebbero secondo
l’Onu 20mila quelli intrappolati, ma non si vedono.
Gli scheletri dei palazzi sono tutti grigi, dal primo
all’ultimo, di vetri alle finestre non ce ne sono più, solo buchi di
pallottole, razzi e mortai, i piccoli giardini che intervallano i
quartieri sono bruciati.
Raqqa è grigia, svuotata, una città spettrale. La
battaglia continua: la controffensiva lanciata a giugno dalla
federazione di kurdi, assiri, turkmeni, arabi, circassi (le Forze
Democratiche Siriane, Sdf) avanza con difficoltà, i cecchini e le mine
dell’Isis li rallentano.
Dall’alto piovono le bombe della coalizione a guida Usa che uccidono chi trovano: secondo
Amnesty International, tra giugno e luglio sono morti 150 civili, ma il
numero appare palesemente al ribasso viste le stragi segnalate dalle
associazioni di monitoraggio come Airwars.
Fino al 25 agosto sono stati oltre mille i raid in Siria, 953 a
luglio e 878 a giugno. I morti? Almeno 100 civili sono stati uccisi la
scorsa settimana in 48 ore, 167 dal 14 al 23 agosto. Il 27 luglio il
gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently denunciava 29 morti (8
bambini) in un raid Usa. E, andando a ritroso, i numeri si ripetono.
La situazione per i civili siriani da tre anni e mezzo ostaggi dello
Stato Islamico che di Raqqa ha fatto la propria capitale – e la difende,
come Mosul, con i denti – è drammatica. Dal gennaio 2014 vivono sotto
un’occupazione brutale la cui via d’uscita – l’operazione Sdf – è
ovviamente violenta.
Per questo l’Onu, attraverso l’inviato speciale Jan Egelend,
pochi giorni fa ha fatto appello agli Stati Uniti chiedendo una pausa
nei raid per poter soccorrere i residenti delle zone ora raggiungibili.
Ma Washington ha detto di no. Lo stesso appello che alla fine
dell’anno scorso veniva mosso per Aleppo al fronte Damasco-Mosca,
accusati di non tenere in alcun conto la vita dei civili, stavolta passa
sotto silenzio.
Rifiutato. E i raid continuano nelle aree centrali della città,
quelle con la più alta densità abitativa, perché – è la spiegazione del
colonnello Scrocca della coalizione Usa – «andare più lentamente ritarda
solo la liberazione e dunque costerebbe di più in termini di vite
civili». «La coalizione concorda con la necessità di proteggere i civili
– aggiunge – e mettiamo a rischio le vite delle forze partner per
salvarli ogni giorno. È un equilibrio delicato. Non esiste una formula
perfetta».
Dall’altra parte c’è l’Isis che, dicono le Sdf, impedisce ai
residenti la fuga, li usa (come già visto in altri scenari di guerra)
come scudi umani. E la loro presenza, aggiungono, ritarda l’avanzata:
«Se non ci fossero civili, Raqqa sarebbe libera in 10 giorni».
Ma non si combatte solo contro l’Isis: martedì vicino Manbij,
comunità liberata dalle Ypg kurde ad agosto 2016 e da allora target
della Turchia, le opposizioni legate ad Ankara (unità dell’Esercito
Libero Siriano che prendono parte all’operazione terrestre turca a
Rojava) hanno aperto il fuoco contro le forze di terra statunitensi.
I marines hanno risposto al fuoco per poi ritirarsi ed evitare
un’imbarazzante escalation, pericolosa non tanto dal punto di vista
militare quanto politico. L’Els ha ricevuto milioni di dollari in armi e
addestramento dagli Stati Uniti e la Turchia è stretto alleato
della Nato e di Washington.
Gli scontri di martedì lasciano tutti nudi,
svelano le contraddizioni che la guerra siriana ha esaltato, gli
interessi di parte e le storture dell’intervento occidentale.
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