di Michele Giorgio – il Manifesto
La partecipazione alle manifestazioni non è massiccia, fa notare qualcuno. Vero. Ma in ogni caso non
cessa la protesta palestinese contro il riconoscimento di Gerusalemme
capitale di Israele fatto da Donald Trump una settimana fa. Nel
campo profughi di Arroub, nell’università di Tulkarem, a Betlemme,
Ramallah e in altre località della Cisgiordania, ieri dozzine di giovani
palestinesi hanno affrontato con lanci di sassi i soldati israeliani
mentre cortei attraversano i centri abitati.
I dimostranti feriti sono stati almeno dieci. E centinaia di
palestinesi d’Israele hanno tenuto a Tel Aviv un sit in di fronte
all’ambasciata Usa che Trump intende spostare a Gerusalemme. La
protesta viene sottovalutata dai media israeliani che dedicano spazio in
questi giorni soprattutto alla politica interna. Fa eccezione Gaza dove
la tensione, tra raid aerei e cannoneggianti israeliani e
lanci di otto razzi palestinesi (in una settimana) non si sa bene da
parte di chi, sta scivolando verso il baratro. Ieri due palestinesi armati e in moto sono rimasti uccisi a Beit Lahiya in circostanze oscure.
All’inizio da Gaza avevano denunciato un attacco di droni israeliani.
Poi il Jihad ha diffuso un comunicato per precisare che due suoi uomini
erano morti in “missione”. A quanto pare i due sono stati uccisi dallo
scoppio accidentale dell’ordigno che trasportavano.
A differenza dei giornali, le autorità politiche e militari
israeliane non sottovalutano affatto gli sviluppi della protesta
palestinese. Lo conferma la decisione di confinare in isolamento Marwan Barghouti,
segretario del partito Fatah in Cisgiordania, da 15 anni in carcere in
Israele. Barghouti, 58 anni, è noto come il comandante della seconda
Intifada (2000-2005) e il suo carisma è rimasto intatto nonostante la
lunga detenzione. Israele, spiegano i palestinesi, teme che Barghouti
possa rivolgere nuovi appelli alla rivolta. «Mio padre è stato messo in
isolamento per il messaggio che ha inviato ai palestinesi in occasione
del trentesimo anniversario della prima Intifada (8 dicembre)» ci diceva
ieri Qasam Barghouti, figlio del leader di Fatah, «in quel messaggio ha
esortato la popolazione a respingere la dichiarazione di Trump e a dare
vita ad una Intifada popolare e pacifica come quella cominciata nel
1987».
Marwan Barghouti in quel messaggio sollecitava i palestinesi a ritrovare una piena unità nazionale. La
riconciliazione tra Fatah e Hamas però è ancora lontana. Il 10 dicembre
è saltata un’altra scadenza fondamentale fissata dalle due parti per
completare il trasferimento del controllo di Gaza da Hamas al governo dell’Autorità nazionale di Abu Mazen
di cui Fatah è la colonna portante. Il passaggio dei poteri non è
avvenuto per il mancato pagamento dei salari dei dipendenti pubblici di
Gaza, assunti in questi anni dall’esecutivo di Hamas. Il governo
dell’Anp non ha versato il salario sui conti correnti degli impiegati in
risposta alla decisione del movimento islamico di non trasferire nelle
casse dell’Anp le tasse raccolte a Gaza. Gli islamisti si sono difesi
spiegando di non aver avuto da Ramallah l’assicurazione che quei fondi
saranno usati per pagare i dipendenti pubblici di Gaza.
Lo status di Gerusalemme dopo la dichiarazione di Donald Trump, sarà
oggi al centro delle discussioni di capi di stato e di governo e alti
rappresentanti politici di 57 Paesi musulmani attesi a Istanbul per il vertice straordinario dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) che rappresenta 1,6 miliardi di musulmani nel mondo. A presiedere i lavori sarà il presidente turco Recep Tayyip Erdogan
che nei giorni scorsi è stato tra i più duri contro Trump e il premier
Benyamin Netanyahu, al punto da definire Israele uno «Stato terrorista e
assassino di bambini».
Oltre ad Abu Mazen sono attesi a Istanbul il re di Giordania Abdallah II e il presidente iraniano Hassan Rohani. I membri dell’Oic giungono al summit con posizioni diverse.
«Sembra che alcuni Paesi arabi evitino di sfidare Trump» perché «gli fa
paura» ha commentato il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu in
riferimento, con ogni probabilità, all’Arabia Saudita e ad altre
petromonarchie del Golfo impegnate in un lento ma costante processo di
avvicinamento a Israele in funzione anti-iraniana.
Il mistero
intanto circonda il vertice trilaterale con il presidente egiziano el
Sisi, Abdallah di Giordania e Abu Mazen che si è tenuto due giorni fa al
Cairo. Non si è saputo molto sebbene il summit fosse stato presentato come una rinnovata alleanza tra i tre leader. Le
indiscrezioni dicono che el Sisi e Abdallah avrebbero “suggerito” ad
Abu Mazen di abbassare i toni delle accuse a Trump e che Egitto e
Giordania non intendono danneggiare le relazioni con Washington.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento