Per cogliere il senso di ogni partecipazione elettorale bisogna prima di tutto ricostruire il contesto. Le elezioni si incaricano di rappresentare politicamente quello che si muove nella società. Anche in questo senso rimane vera l’affermazione secondo cui in politica non esistono vuoti, men che meno di rappresentanza. La scomparsa elettorale della sinistra di classe è il risultato di una scomparsa materiale delle lotte di classe nel paese. Lo dicono le statistiche: «Come si è visto la conflittualità in Italia ha subito un tracollo a partire dal 1985, e da allora non è mai tornata ai livelli precedenti. Anzi: nel 1995 ha conosciuto un ulteriore declino. Le momentanee riprese del 1990 (settore industriale) e del 2002 (settore terziario) non hanno modificato questo percorso» (qui).
Le ore di sciopero in Italia: siamo tornati al 1881... |
Lo dicono i libri: «Il lungo autunno freddo. Radiografia delle nuove relazioni industriali». Lo dice, appena sfornato, l’ultimo rapporto Censis, quello del “rancore” sociale: «Il blocco non è solo un dato oggettivo ma è anche un’atmosfera percepita, crea rabbia repressa che non riesce più a sfogare nemmeno lungo le linee del conflitto sociale tradizionale» (qui). Lo dice, soprattutto, la percezione dei militanti politici che, nonostante tutto, insistono in un paesaggio sociale e politico fatto di macerie, con al centro la questione delle periferie, il grande rimosso sociale del paese, come rilevato anche dalla sondaggista Alessandra Ghisleri: «Mi è capitato di chiedere di recente a una sondaggista attenta come Alessandra Ghisleri quale potesse essere secondo lei la issue decisiva (capace cioè di spostare voti) della prossima campagna elettorale e la risposta che ho avuto si può sintetizzare in una parola-chiave, «periferie». Intese sia come luoghi fisici sia come auto-percezione della propria condizione sociale» (sempre Dario di Vico). In Italia abbiamo tante lotte ma poche lotte di classe[1]. Questo il motivo storico alla base della scomparsa della sinistra dalle assemblee elettive, in primo luogo dal Parlamento. Tutto il resto su cui ci possiamo accanire (“tradimenti” del ceto politico, opportunismi, scarsa conflittualità, incapacità soggettiva, eccetera) esiste, ma non spiega i motivi di fondo della scomparsa della sinistra, che risiedono altrove.
Per rimanere ad esempi a noi prossimi, laddove in Europa si è generata una dialettica elettoralmente propositiva, segnatamente in Grecia, Spagna e recentemente in Francia, questa ha avuto luogo a seguito di mobilitazioni popolari e di classe capaci di costruire le fondamenta di un processo politico anche elettorale. In Grecia l’ascesa di Syriza (costituitasi effettivamente come partito nel 2012) è avvenuta nel mezzo di cinque anni (2010-2015) di altissima conflittualità, scioperi generali e ingovernabilità politica che hanno prodotto il fenomeno Syriza come risultato dell’ingovernabilità e, al tempo stesso, come strumento di governabilità del marasma sociale generato dalla crisi economica. In Spagna l’eclettico progetto politico sfociato in Podemos (nato nel 2014) è il risultato (di una parte) del movimento degli Indignados (2011), che non ha bloccato il paese come in Grecia, ma che ha mobilitato una società stretta nell’ambivalente logica neoliberale del Partito Popular e del Psoe. In Francia, infine, il soddisfacente risultato elettorale di Jean-Luc Mélenchon (aprile 2017) e del partito France insoumise (19,58%) è avvenuto sull’onda delle mobilitazioni sociali contro la cosiddetta loi travail (anche detta legge El Khomri, 2016), che hanno bloccato il paese e ricomposto momentaneamente l’opposizione sociale e politica francese.
Se volessimo trarre una linea guida da queste esperienze, ci renderemmo conto che esiste una dialettica tra mobilitazioni sociali e rappresentanza politica, e questa dialettica genera lotte di classe, cioè lotte che incidono sui rapporti della politica senza fermarsi al semplice (ma necessario) livello vertenziale, sociale, sindacale o, come avrebbe detto Marx, tradunionista. E’ presente qualcosa di simile in Italia oggi? No, al contrario: regna una tale pace sociale che persino il Censis si va lamentando dello scarso conflitto (ché un po' di conflitto fa bene pure al capitale, sembra indicare il Censis). Cosa si troverebbero a rappresentare gli eletti della sinistra in Parlamento? Niente, se non la testimonianza di una necessità storica (l’emancipazione progressiva o rivoluzionaria delle classi subalterne), disincarnata però da soggetti sociali che la pongono materialmente in essere. Motivo per cui suddetti rappresentanti non ci sono più.
Ma questo appena riferito è uno schema, seppur fondato su precise occorrenze che storicamente tendono a ripetersi. Lo schema, come detto all’inizio, può facilitare la comprensione della realtà ma non esaurirne le possibilità. Detto altrimenti: non sta scritto da nessuna parte che un movimento politico non possa generarsi “dall’alto”, a seguito di processi contraddittori che in corso d’opera si rafforzano per le vie più intricate. Al netto delle clamorose differenze di contesto (quindi da prendere come suggestione e non come esempio immediatamente riproducibile), l’esperienza chavista venezuelana ci indica esattamente la sfuggevole complessità della realtà rispetto agli schemi precostituiti della politica. La volontà di emancipazione patriottica e antimperialista di un pezzo dell’esercito si è prima imposta come scontro tra poteri nazionali, e solo successivamente è stata capace di mobilitare e organizzare un fortissimo movimento dal basso, movimento che quest’anno ha difeso materialmente la rivoluzione bolivariana dal golpe imperialista anti Maduro (come fece già nel 2002). Dunque non c’è nessun determinismo che procede dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso. E’ nella situazione reale che si giudicano le possibilità per una sinistra di classe di evolvere e far evolvere il quadro politico. Qui si situano i problemi di Potere al popolo.
Dal punto di vista elettorale una lista di questo tipo ha scarsissime, se non nulle, possibilità concrete. Per come è strutturato l’attuale sistema elettorale, ci sono due piani di lavoro distinti: da una parte la quota proporzionale, dall’altra la competizione nei collegi uninominali. Rispetto alla quota proporzionale, l’obiettivo è il raggiungimento del 3% a livello nazionale (1 milione di voti circa, se l’affluenza si manterrà simile alle precedenti elezioni del 2013: 75% di votanti per quasi 35 milioni di voti validi), 3% che rappresenta la soglia d’ingresso prevista dal Rosatellum per venire eletti (con circa 9 rappresentanti, sempre col 3%). Nel 2013 la famigerata e mai troppo poco denigrata “Rivoluzione civile” di Ingroia, cartello elettorale comprendente tutto il parterre de roi della sinistra di complemento, residuale e anti-comunista (Verdi, Italia dei Valori, Rifondazione comunista, Comunisti italiani, e via degenerando) prese il 2,25% con 765 mila voti, rimanendo grazie al cielo esclusa dal Parlamento. Il risultato è in linea col declino tendenziale della sinistra elettorale, cioè leggermente inferiore alle elezioni del 2008 (Lista arcobaleno), che a suo volta risultò inferiore alle elezioni del 2006, che a sua volta risultò inferiore alle elezioni del 2001 e così via. E’ un trend stabile, che trova spiegazione nella premessa fatta all’inizio del discorso: la politica esprime quello che c’è, non quello che non esiste.
Riguardo invece alla battaglia elettorale nei collegi uninominali, Potere al popolo dovrebbe semplicemente risultare la prima lista eletta. I due differenti metodi elettorali incorporati nel Rosatellum prevedono però due dinamiche politiche differenti e contrapposte: se nel proporzionale ad essere privilegiato è il voto ideologico e d’opinione, che dovrebbe premiare la diversità dell’offerta politica, nei collegi uninominali ad essere premiata è la capacità di coalizzarsi dei partiti. Tradotto: se al proporzionale paga andare da soli distinguendosi politicamente, nella quota maggioritaria è invece necessario coalizzarsi per raccogliere più voti possibile. Dunque, all’uninominale la lotta non sarà fra partiti, ma fra coalizioni. E’ il motivo fondamentale per cui il Pd in queste settimane ha cambiato verso al suo posizionamento politico rincorrendo “la sinistra” di Bersani e Fratoianni sperando così di ricostruire l’Ulivo 2.0. Per quanto forte possa risultare una lista dal basso come Potere al popolo in alcune zone del paese (pensiamo a Napoli), difficile, per usare un eufemismo, pensare che possa spuntarla contro coalizioni eterogenee tirate su proprio per raccogliere più voti possibili. E tutto questo, detto per inciso, senza affrontare il problema della raccolta firme (65.000) da presentare entro il 29 gennaio (se si votasse, come appare probabile, il 4 marzo) o il 5 febbraio (se si votasse l’11 marzo) (qui).
Si può rispondere a tutto questo, come in effetti ci è stato risposto, che l’obiettivo non è il risultato elettorale, ma il processo politico che questo potrebbe mettere in piedi. Siamo perfettamente d’accordo. Se un processo come questo arriverà al risultato di aggregare forze politiche differenti sarà, già solo per questo motivo, un passo in avanti non indifferente. Ci chiediamo però: se il risultato elettorale viene presentato come secondario e ininfluente, perché si sceglie di partire da questo e non dal processo in sé, a prescindere dalle elezioni? Non è una domanda priva di senso politico. Viviamo in una fase in cui quote sempre più grandi, addirittura maggioritarie, di popolazione si vanno distaccando dal momento elettorale. Viviamo dentro una fase in cui il nuovo non può che presentarsi fuori dalle dinamiche elettorali, non per boicottarle ideologicamente, ma per presentarsi immediatamente come contrario alle logiche che sottintendono la partecipazione elettorale e il Parlamento frutto di questa partecipazione: dentro il “palazzo” c’è la politica neoliberale, nelle sue varie articolazioni. Perché quest’ansia di partecipare al banchetto neoliberale, sempre più privato di poteri effettivi dal processo europeista e sempre più identificato tout court come “il problema” politico? E’ davvero da una partecipazione elettorale che possono scorgersi i caratteri d’alterità di un progetto politico, e non dalla sua consapevole e tattica scelta di astenersi, saltando uno o più giri? Sono temi dirimenti che non hanno una risposta immediata, almeno per la sinistra di classe.
Diverso l’approccio del principale attore della lista Potere al popolo, e cioè quella Rifondazione comunista che ha come mission proprio quella di candidarsi sperando così di trovare lavoro al suo ceto “dirigente”. E allora la domanda sul senso generale di una lista del genere andrebbe calibrata in un altro modo: quale progetto politico nuovo e originale può nascere da un partito come Rifondazione comunista? Non abbiamo niente di personale, davvero, col Prc. Pensiamo, al contrario, che sia formato da tanti bravi compagni, che conosciamo e apprezziamo. Il problema è che il Prc ha esaurito definitivamente il suo ruolo politico. Qualsiasi cosa nascerà, se nascerà, a sinistra, lo farà a scapito di Rifondazione e non grazie ad essa. E’ un problema oggettivo, che va al di là delle singole capacità dei diversi soggetti che la animano. Il Prc è il vecchio che ricicla se stesso, è l’espressione di una fase importante ma tramontata della politica italiana degli anni ‘90. Starebbe, ancora oggi, con Fratoianni e Speranza, se questi non avessero sfanculato il Brancaccio determinando, loro e non l’improbabile duo Falcone&Montanari, il fallimento di quell’assemblea. In altri termini: quell’assemblea è fallita da destra, e non da sinistra, e i falliti cercano oggi di aggrapparsi al carro di Potere al popolo, trascinandolo con sé. Ecco perché il piano elettorale diviene centrale, almeno per il Prc: perché fuori da quel piano non c’è relazione politica possibile per quel ceto “dirigente”. Ed è anche per questo che il risultato elettorale non è secondario. Un eventuale débâcle elettoralistica non sarà indolore. Contarci quando siamo deboli non è mai stato il modo migliore di mascherare le nostre difficoltà. Il rischio di venire relegati negli “altri”, tra Pensionati e Monarchici, certificherebbe la nostra inesistenza e complicherebbe ulteriormente il nostro lavoro quotidiano nelle periferie. Una scommessa di cui si stanno sottovalutando rischi più che concreti.
Nonostante queste remore, ribadiamo ancora: non esistono schemi precostituiti. Crediamo allora che ogni tentativo possa essere fatto, pur nel pessimismo della logica politica. Ci auguriamo sinceramente che il tentativo possa riuscire, liberandosi delle zavorre che ancora risiedono in esso. Ma questo potrà avvenire, realisticamente, un minuto dopo le elezioni, non prima. Sarà un minuto dopo il risultato elettorale che si potrà capire la natura genuina di tale processo, le sue effettive potenzialità, le speranze che saprà suscitare, ma soprattutto le lotte reali in cui saprà nuotare o che saprà organizzare e, perché no, rappresentare. Liberandosi di chi è un limite a tale processo, e costruendo quel terreno politico su cui basare una relazione che possa andare al di là delle elezioni. Per quanto ci riguarda, allora, ben venga ogni confronto e ogni lavoro collettivo in tal senso. Ma la traversata del deserto è appena iniziata, e non verrà aggirata dalla solita scorciatoia elettorale.
Note
[1] «L’elemento essenziale della dottrina di Marx è la lotta di classe. Così si dice e si scrive molto spesso. Ma questo non è vero e da questa affermazione errata deriva, di solito, una deformazione opportunista del marxismo, un travestimento del marxismo nel senso di renderlo accettabile alla borghesia. Perché la dottrina della lotta di classe non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx e può, in generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato». Lenin, Stato e rivoluzione, pag.14 del nostro pdf.
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