24/08/2019
Un presidente matto, un classico dei tempi di crisi
I comici e i matti arrivano al potere persino negli Stati Uniti, che pure hanno una certa tradizione nell’eliminare presidenti “problematici” per alcuni settori forti dell’establishment. Segno che l’apparente “irrazionalità” di certe trasformazioni risponde a una “necessità” del sistema complessivo, anche se non è affatto semplice ricostruire con precisione il filo logico che lega eventi critici e risposte “illogiche”.
Potremmo esercitarci con divertimento sullo strano balletto che accompagna il tentativo di formazione di un governo gialloblu (accogliamo senza riserve la definizione di Giorgio Cremaschi), dove la piccineria dei protagonisti viene immensamente superata da quella di molti media. Basti guardare al partito di Repubblica, che da un lato preme per un governo che escluda nuove elezioni subito e per l’altro spara a zero sulle possibilità di intesa tra Pd e Cinque Stelle. Quindi, “oggettivamente”, per avvicinare le elezioni e dare soluzione alla crisi della politica con qualche “capo assoluto” particolarmente disgraziato e pazzo, ma “ottimo comunicatore”.
Però non sarebbe un esempio in grado di illuminare le dinamiche del mondo.
Vediamo allora la “guerra dei dazi” aperta da quell’altro mattacchione di Donald Trump contro la Cina (ufficialmente) e la Germania (sottotraccia). Sul piano logico è una follia che mette fine al “mercato globale” e quindi accelera la caduta di un processo di crescita capitalistica già stagnante per conto suo. Ma il mattacchione vuole essere rieletto e dunque – proprio come le multinazionali che devono presentare sempre delle relazioni trimestrali positive, pena un tonfo in borsa – si inventa “atti di imperio politico” che possono avere solo effetti negativi sul sistema. Ma che soprattutto hanno poca possibilità di funzionare anche per il (piccolo) scopo dichiarato.
Vediamo gli ultimi sviluppi, che hanno gettato nello sconforto le borse mondiali ieri.
Come risposta alla lunghissima serie di dazi imposti dagli Usa sui beni cinesi, Pechino ha infine risposto con misure simmetriche che colpiscono 5.078 prodotti Usa. Si va dai fagioli di soia (danneggiando ancora un volta i farmers del Midwest, zoccolo duro trumpiano) al petrolio (tariffe del 5% a partire dall’inizio di ottobre); ma anche alle automobili, per le quali da dicembre torna la tassa del 25% prima abolita, e altre tariffe al 5% sui pezzi di ricambio prodotti negli Stati Uniti.
Senza neanche pensarci un attimo – ed è un altro segno di irrazionalità, in queste materie e a questo livello – Trump ha varato altri dazi aggiuntivi, arrivando addirittura ad “ordinare” alle multinazionali Usa di abbandonare la Cina e investire altrove. Come se non fosse lui stesso un risultato dell’indebolimento del potere politico rispetto a quelli economico-finanziari e dunque come se le multinazionali fossero ai suoi ordini, anziché – in larga misura – viceversa.
Chiarissima la risposta di Myron Brilliant, vice presidente della Camera di Commercio statunitense: «Trump può essere frustrato con la Cina, ma la risposta non è per le aziende americane ignorare un mercato di 1,4 miliardi di consumatori». È indicativo che vada ricordato a un palazzinaro che in regime capitalistico le imprese puntano in primo luogo a far soldi e dunque una simile quantità di potenziali clienti (oltretutto ora abbastanza benestanti da potersi permettere molto) prevale su qualsiasi considerazione politica di un presidente a tempo.
Per questo continuiamo a pensare che “l’irrazionalità al potere” sia la parte visibile di una crisi di sistema che non riesce né a trovare una soluzione, né ad esplodere.
I matti al potere, sempre “ottimi comunicatori”, come al solito preparano la seconda...
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