Si sa che le campagne per la cosiddetta “verità storica” hanno quasi sempre motivazioni attualissime. Non fa eccezione la carovana mediatica avviata con la famigerata risoluzione settembrina del Parlamento europeo per la “formalizzazione” (nei fatti, l’argomento è molto avanti con gli anni) della equiparazione tra nazismo e comunismo e dell’accusa all’URSS di complicità col nazismo per il patto “Molotov-Ribbentrop”.
L’obiettivo è sempre lo stesso: tentare di esorcizzare il comunismo. Dunque, non è il caso di lasciar passare impunemente nessuna delle rivisitazioni “storiche”: esse non riguardano la sola storia passata, e nemmeno la storia di questo o quel Paese determinato, indipendentemente dall’ordine sociale odierno di questo o quel Paese e dalle dichiarazioni pubbliche dei loro leader. Quelle rivisitazioni sono sempre rivolte a tutti i Paesi e al presente, a mettere in guardia gli angelici e serafici “democratici” di oggi e di domani che i “comunisti sono sempre gli stessi”: gli eredi e i seguaci di coloro che, in un passato prossimo, si sono macchiati di tali e talaltri “crimini efferati” e, dunque, sono sempre pronti a ripetere le gesta dei loro avi.
Quanto, ad esempio, il putiferio che va in onda da mesi in “prima serata”, dopo che per decenni era rimasto relegato ai manuali di storia liberali, sul peso avuto dal Patto di non aggressione del 23 agosto 1939 tra Germania e URSS per lo scoppio della guerra, sia tutto interno al presente, lo può testimoniare una breve rassegna della stampa polacca dell’epoca, di senso completamente opposto alle attuali “convinzioni” di Varsavia.
“Patto senza significato pratico”, scriveva il 24 agosto 1939 l’organo del Ministero della guerra, Polska Zbrojna e continuava “Sdegno in Giappone, confusione in Italia e Spagna”; e poi “Successo a uso interno”. Il 27 agosto, Gazeta Polska scriveva che l’accordo con l’URSS era un “atto di disperazione” della diplomazia tedesca finita in un vicolo cieco. Secondo il cristian-democratico Głos narodu, il patto aveva addirittura “elevato l’importanza della Polonia nella politica europea”. Il conservatore Słovo notava che, a est della Germania, l’unica autentica forza militare restava “solo ed esclusivamente la Polonia” e nella futura guerra la Polonia avrebbe operato in alleanza coi “popoli liberi” contro “gli uniti totalitarismi bruni e rossi”: sembra oggi!
Significativo, nota lo storico Aleksandr Kiselëv nel volume collettaneo “La coalizione anti-hitleriana del 1939” (Mosca, 2019), che “una settimana prima dello scoppio della guerra, l’opinione pubblica polacca non valutasse il Patto tedesco-sovietico come una diretta minaccia all’indipendenza della Polonia da parte dell’URSS”.
Vaglielo a dire oggi a Bruxelles, tutta intenta a ricordare ai puri e celestiali “democratici” che quel patto “spianò la strada all’inizio della Seconda guerra mondiale”. Non fu mica la “diplomazia” anglo-francese dei 5-6 anni precedenti a dar mano libera a Hitler; oppure, per limitarsi alle due ultime settimane dell’agosto ’39, ad esempio, le note ufficiose inviate a Berlino il 16 e il 26 agosto dal Ministero dell’aeronautica inglese, che Londra avrebbe sì dichiarato guerra alla Germania, ma non l’avrebbe iniziata, se la Wehrmacht avesse liquidato velocemente la Polonia.
A “spianare la strada” ai nazisti, non furono mica le promesse verbali inglesi alla Polonia, fatte al solo scopo di far pressione sulla Germania per arrivare a un accordo anglo-tedesco. No: di questo si tace. È mediaticamente più convincente puntare sui “totalitarismi bruno e rosso”. Come scrive Mikhail Meltjukov nel volume citato sopra, “invece di adempiere onestamente agli obblighi di alleati nei confronti di Varsavia, Londra e Parigi continuavano a perseguire l’accordo con la Germania, il che di fatto spinse questa a muover guerra alla Polonia”.
Ma, uno dei cavalli di battaglia preferiti della “storiografia” liberale, ereditata direttamente dalla propaganda hitleriana, è da sempre costituito dall’accusa al NKVD per il massacro di Katyn, di cui ciclicamente si torna a parlare. Era stato il Ministro per la propaganda del Reich, Joseph Goebbels, nell’aprile 1943, a “scoprire” l’eccidio, compiuto a suo dire, nella primavera del 1940, dai sovietici nelle foreste dei monti Kozji, una quindicina di chilometri da Smolensk, area che i polacchi chiamano, appunto, Katyn. Obiettivo nazista, con la “scoperta”, era quello di incrinare la coalizione bellica anti-hitleriana.
Da anni è ormai dimostrata la responsabilità nazista nel massacro degli ufficiali dell’esercito e della polizia polacchi, senza che ciò abbia impedito a quegli “storiografi” democratici di continuare a propagandare la versione goebbelsiana. E lo fanno tanto più attivamente oggi, allorché l’equiparazione di nazismo e comunismo è materia “europeista” e proprio i polacchi sono i più solerti nella riscrittura della storia.
Ovviamente, da quelle parti non si inventa nulla di nuovo e ciò che si è mutuato dai manuali nazisti è andato negli anni a riempire le pagine del revisionismo liberale, a cominciare da quel catechismo anglo-americano che il Dipartimento di stato aveva impartito ai fedeli nel 1948 col titolo di “Nazi-Soviet relations: 1939-1941”, cui il Sovinformbjuro dell’URSS aveva risposto, nello stesso anno, con l’opuscolo “Falsificatori della storia”.
Nella lunga polemica tra Varsavia e Mosca, in cui la questione “Katyn” rappresenta una delle formule magiche, si erano inseriti a loro tempo anche i patriarchi della nuova Russia, Mikhail Gorbačëv e Boris Eltsin, i quali avevano giurato che, senz’altro, quel massacro era stato opera dei sanguinari comunisti sovietici. Poi erano venute altre indagini, che avevano messo knock out molte “verità” della perestrojka (i famosi resti della famiglia zarista, per dirne una, e la loro santificazione: sbugiardati da scienziati internazionali) e invalidato quindi l’attendibilità di tante altre “rivelazioni”. Come dire: un testimone che sotto giuramento ha mentito una volta, perché non dovrebbe farlo ancora?
Si era così arrivati al giugno 2012, allorché la Corte di Strasburgo per i diritti umani aveva giudicato falsi – anzi, non li aveva nemmeno ammessi quale prova – i “documenti d’archivio” che il principale ideologo della perestrojka, Aleksandr Jakovlev, aveva curato, a nome del duo Gorbačëv-Eltsin, quale prova d’accusa contro il NKVD. E la nuova Russia si era affrettata a porgere le scuse a Varsavia, per ribadire la malvagità dei propri padri; questo, nonostante anche il responsabile affari esteri del CC del PCUS, Valentin Falin, avesse avanzato forti dubbi sull’autenticità dei documenti “rinvenuti” negli archivi.
Come aveva rilevato il pubblicista Jurij Mukhin (pur se altre sue idee non sono, quel che si dice, l’apice dell’oggettività), già poche semplici osservazioni mettevano sull’avviso nella questione delle vere responsabilità per la strage: il fatto che le vittime fossero legate con corde tedesche e uccise con un tipo di armi tedesche che in URSS, all’epoca presunta del massacro, non si importavano più, né si costruivano; che al momento delle esumazioni, fossero state rinvenute addosso alle vittime cartoline e lettere datate fino al giugno 1941, nonostante i nazisti avessero parlato del massacro come avvenuto nella primavera del 1940; che le 4 pagine del documento presentato come “prova” della colpa sovietica, recante la presunta risoluzione del VKP(b) sull’esecuzione dei polacchi, fossero stampate su tipi diversi di carta e scritte con macchine da scrivere diverse.
Ma da tutto ciò ne consegue, scrive livejournal.com, che quei “documenti” presentati a suo tempo da Aleksandr Jakovlev, invalidano buona parte degli archivi sovietici aperti negli anni ’90 e mettono in forte dubbio tutta la riscrittura della storia sovietica avvenuta negli anni eltsiniani. Non è un caso, scrive la rivista, che più o meno “fino a inizio anni ’90, il mondo intero fosse convinto che gli ufficiali polacchi fossero stati fucilati dai tedeschi. Dopo il 1990, che fossero stati i russi a sparare. Ora, dopo la sentenza di Strasburgo, non vi è alcuna chiarezza e sappiamo solo che i polacchi sono morti. Solo, per mano di chi?”.
Dunque, fino al 1990 nessuno metteva in dubbio che le armi usate nel massacro fossero di fabbricazione tedesca. I plotoni del NKVD usavano sempre i revolver individuali d’ordinanza, mentre contro gli ufficiali polacchi erano state usate anche mitragliatrici. I nazisti, che per primi “scoprirono” le sepolture, scrissero di aver identificato i morti dalle mostrine dell’esercito polacco; ma, il “Regolamento sui prigionieri di guerra” sovietico stabiliva che i prigionieri non potessero portare mostrine.
C’è anche un altro fatto interessante, scrive livejournal.com: tra i polacchi internati dai sovietici nel 1939 c’erano due giovani ufficiali, Wojciech Jaruzelski e Menachem Begin, rispettivamente futuri leader polacco e premier israeliano. Né l’uno né l’altro hanno mai detto nulla sulla presunta responsabilità sovietica. Persino un anti-sovietico come Begin, che di massacri se ne intendeva, ha sempre detto che i polacchi furono giustiziati dai nazisti.
L’ex Procuratore, ex deputato del KPRF e giurista Viktor Iljukhin, che per anni, sulla questione, aveva condotto indagini autonome insieme agli storici Sergej Strygin e Vladislav Šved, nel maggio 2010 aveva parlato di una massiccia falsificazione di documenti storici, tra cui anche la presunta nota del marzo 1940, indirizzata da Lavrentij Berija al Politbjuro del VKP(b), per la fucilazione dei prigionieri polacchi.
Iljukhin aveva detto che, nei primi anni ’90, Aleksandr Jakovlev aveva messo in piedi un gruppo di specialisti per la creazione di falsi documenti, poi introdotti negli archivi del CC del PCUS. Iljukhin aveva chiesto di iniziare un lavoro su larga scala per la verifica degli archivi e smascherare i documenti redatti appositamente per screditare il periodo sovietico. Meno di un anno dopo, Iljukhin morì, all’età di 62 anni: secondo il KPRF, la sua improvvisa morte rimane tuttora quantomeno misteriosa.
Appena qualche giorno fa, Maksim Maksimov ricordava su Ukraina.ru, che il “ritrovamento” da parte dei nazisti delle fosse di Katyn nel 1943 aveva portato alla rottura delle relazioni, già di per sé labili, tra URSS e governo polacco in esilio a Londra. Mentre a Mosca erano in corso i colloqui sui futuri confini della Polonia, avvenne la “scoperta” tedesca e il governo in esilio inviò propri rappresentanti nel territorio dell’URSS occupato dai tedeschi per prendere parte alla “commissione d’indagine”, diventando in tal modo complice della campagna propagandistica tedesca per dividere gli alleati.
“La reazione di Stalin”, scrive Maksimov “fu fulminea e delle più aspre”. L’URSS ruppe ufficialmente l’accordo di Londra Majskij-Sikorski del luglio ’41 con il governo polacco in esilio e cessò le relazioni diplomatiche con esso. Ma “ciò contrariava la Gran Bretagna, che non aveva certo bisogno di uno scandalo del governo fantoccio alla vigilia dell’ingresso dell’Armata Rossa in Polonia. Sikorski era però ormai fuori controllo. Chiese addirittura a Churchill di rompere i rapporti con l’URSS. E non si sa come sarebbe finita se, nell’estate del 1943, l’aereo su cui Sikorski stava volando in Africa per ispezionare le unità del Wojsko Polskie che facevano parte dell’esercito di Anders, non si fosse schiantato in mare 16 secondi dopo il decollo”. In fatto di incidenti che capitano al momento opportuno, oltremanica se la cavano discretamente.
Per noi, un elemento in più per ricordare di che mattoni sia fatto il “muro del pianto” dell’anticomunismo.
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