La recente visita in Myanmar del presidente cinese, Xi Jinping, ha
messo in evidenza il persistere di legami strettissimi tra i due paesi,
nonostante il rimescolamento strategico che era seguito o avrebbe dovuto
seguire il ritorno formale alla democrazia dell’ex Birmania. I due
vicini, per meglio dire, stanno di fatto tornando alla partnership che
caratterizzava i loro rapporti prima del breve idillio con l’Occidente.
Un’evoluzione, quella in corso, che risponde alla necessità per il
Myanmar di evitare l’isolamento internazionale e per la Cina di
sfruttare le opportunità strategiche di ampio respiro offerte
dall’alleato.
La questione che ha maggiormente contribuito a incrinare le relazioni
tra il Myanmar e l’Occidente è la persecuzione, al limite del
genocidio, della minoranza Rohingya di fede musulmana, stanziata
soprattutto nelle regioni occidentali del paese del sud-est asiatico. La
durissima repressione messa in atto dai militari birmani è stata il
culmine di decenni di soprusi ed emarginazione e ha costretto centinaia
di migliaia di Rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh.
La condanna internazionale del comportamento del Myanmar è stata
inevitabile, viste le dimensioni dei crimini ben documentati. Lo sdegno,
tuttavia, si è intrecciato ad aspetti diplomatici e strategici, in
particolare per quel che riguarda le reazioni degli Stati Uniti, il cui
atteggiamento nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte
di governi stranieri risulta come sempre estremamente selettivo.
In altre parole, la durezza dei toni spesso utilizzati per denunciare
il trattamento dei Rohingya rivelava una certa impazienza verso i
leader birmani, troppo cauti sia nell’abbracciare l’Occidente e le sue
richieste di “riforma” sia nel prendere le distanze dalla Cina. Anche la
stessa “icona democratica” Aung San Suu Kyi è uscita in fretta dalle
grazie di Washington e Bruxelles, proprio perché incapace di denunciare
il genocidio dei Rohingya e, ancor più, per il consolidamento dei
rapporti con Pechino promosso dal governo che di fatto presiede.
Singolarmente, così, le prime settimane di gennaio hanno visto il
quasi sovrapporsi della visita di Xi, la prima di un leader cinese da
quasi due decenni, al verdetto della Corte Internazionale di Giustizia
che ha imposto al Myanmar di adottare provvedimenti per proteggere la
minoranza musulmana. La mancata implementazione della sentenza potrebbe
spingere i paesi occidentali a reintrodurre sanzioni punitive contro il
paese asiatico.
L’Europa, ad esempio, aveva già ipotizzato, tra l’altro, la
sospensione del “trattamento preferenziale” concesso all’export birmano,
con conseguenze pesanti sull’occupazione e l’economia di questo paese.
In un’intervista rilasciata settimana scorsa a Bloomberg News,
il ministro del Commercio del Myanmar, Than Myint, è partito proprio da
questa minaccia per avvertire a sua volta che eventuali sanzioni
occidentali provocherebbero un ulteriore avvicinamento tra il suo paese e
gli “alleati asiatici”, a cominciare dalla Cina.
Il monito dell’esponente del governo birmano è apparso
particolarmente efficace perché lanciato pochi giorni dopo la già
ricordata visita in Myanmar del presidente cinese. Durante la sua
trasferta oltre il confine sud-occidentale, Xi ha firmato più di trenta
accordi con i leader birmani, relativamente alla costruzione di nuove
infrastrutture e a progetti vari, e rilanciato l’integrazione del
Myanmar nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road
Initiative” (BRI).
In un articolo pubblicato questa settimana dalla testata on-line Asia Times,
il giornalista svedese ed esperto di Birmania, Bertil Lintner, ha
scritto che l’idea di partnership che si sta formando tra Cina e Myanmar
ha implicazioni che andranno oltre i piani previsti dalla BRI, dal
momento che essa avrà “risvolti strategici vastissimi per tutta l’Asia
meridionale e sud-orientale”.
I quattro punti cardine del nuovo impulso alla cooperazione
bilaterale includono: un progetto di ferrovia ad alta velocità per
collegare la Cina meridionale con la città di Mandalay, nel centro del
Myanmar, e da qui alla costa sud del paese; lo sviluppo del porto di
Kyaukphyu, affacciato strategicamente sul golfo del Bengala; la
costruzione di una “nuova città” nei pressi della principale metropoli
birmana, Yangon; la creazione di una “zona di cooperazione economica di
confine”.
Questi piani, se portati a compimento, permetterebbero alla Cina di
“rafforzare il proprio ascendente economico e strategico” sul Myanmar e,
soprattutto, di ottenere “uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano per la
prima volta nella sua storia”. Quest’ultimo fattore va collegato agli
sforzi cinesi degli ultimi anni per assicurarsi l’accesso a una serie di
porti strategicamente fondamentali in Asia meridionale, da quello di
Hambantota in Sri Lanka a quello di Gwadar in Pakistan.
Ciò, assieme ai tentativi più o meno efficaci di estendere
l’influenza di Pechino in paesi-isole come Maldive e Seychelles, nonché
alla costruzione della prima base militare all’estero nello stato del
Corno d’Africa di Gibuti, dovrebbe assicurare alla Cina una presenza
strategica nell’Oceano Indiano necessaria a “proteggere i propri
crescenti interessi nella regione e non solo”. Se questo processo non si
presenta ovviamente privo di ostacoli, esso implica potenzialmente il
primato cinese in un’area controllata finora da potenze come Stati Uniti
e India, ma anche Francia e Gran Bretagna, con le quali Pechino
potrebbe entrare sempre più in rotta di collisione.
Nei piani cinesi, ad ogni modo, il Myanmar gioca un ruolo decisivo e, secondo la già citata analisi proposta da Asia Times,
anche superiore a quello svolto da altri partner asiatici di Pechino,
come ad esempio il Pakistan, per via di fattori geografici e strategici.
La chiave per la realizzazione della visione della Cina tramite la
collaborazione con la ex Birmania è appunto la possibilità di
raggiungere in maniera sicura lo sbocco sull’Oceano Indiano, “bypassando
il Mar Cinese Meridionale”, perennemente oggetto di dispute
territoriali, e “un congestionato Stretto di Malacca”, esposto al blocco
americano in caso di conflitto militare.
Da queste vie navali transita d’altronde la maggior parte dei
commerci e delle importazioni energetiche cinesi. Più in generale, lungo
queste rotte passano “i quattro quinti del traffico di container tra
l’Asia e il resto del pianeta”, così come “i tre quinti delle forniture
mondiali di petrolio”. Alla luce di questi dati, è facile comprendere
come l’eventuale concretizzazione delle ambizioni di Pechino, grazie
anche alla partnership con il Myanmar, potrebbe fare della Cina la
potenza dominante del continente asiatico, con tutte le conseguenze del
caso sul piano degli equilibri strategici consolidati dal secondo
dopoguerra a oggi.
Per
quanto riguarda il governo birmano, è evidente che all’interno della
sua classe dirigente esistono profonde divisioni sull’opportunità di
vincolare i piani di sviluppo del paese pressoché unicamente alla Cina.
La diversificazione della propria politica estera era alla base delle
aperture all’Occidente di qualche anno fa e, con ogni probabilità,
continua a essere auspicata da molti.
L’avanzata cinese rappresenta però una minaccia crescente soprattutto
per gli Stati Uniti, che, sempre più, appaiono ostili a scelte
diplomatiche indipendenti o neutrali dei propri potenziali alleati. Per
il Myanmar risulta comunque sempre meno attuabile uno sganciamento da
Pechino, visto l’appeal economico rappresentato dalla Cina che
l’Occidente, a tutt’oggi, non sembra in grado nemmeno lontanamente di
potere avvicinare.
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