Recentemente il presidente francese
Emanuel Macron ha ammesso di considerare l'Alleanza Atlantica
cerebralmente morta. Una dichiarazione che, seppur con risvolti
relativi alla ricerca del consenso interno, testimonia un sentimento di
insofferenza profondo – e trasversale – dell'intellighenzia francese
rispetto al vincolo euroatlantico.
Le affermazioni di Macron riflettono la presa di coscienza dei vertici della seconda potenza militare atlantica – dopo gli Stati Uniti – delle tendenze multipolari dell'ordine internazionale: uno scenario che vede la chiara prominenza di attori come la Federazione Russa e la Cina (Figura 1).
Parigi sta infatti rimodulando la propria strategia internazionale, con
uno sguardo particolare a Mosca: un cambio di rotta forse mosso anche
dai fallimenti collezionati da Parigi negli ultimi anni (Libia, Siria, Françafrique).
Mentre Parigi non fa mistero della propria insofferenza riguardo i vincoli atlantici, Roma sembra ostinarsi a concepire gli interessi della politica estera degli Stati Uniti come sinonimi dei propri: un atteggiamento confermato alcuni mesi fa dall'attuale Ministro della Difesa italiano, che ha indicato come “principali minacce alla sicurezza nazionale” la Federazione Russa
e la Cina. Un episodio in cui si esplicita la decadenza di una
politica che preferisce appaltare – oltreoceano o oltralpe – le
decisioni fondamentali per il proprio Paese.
Il dibattito che impegna oggi l'opinione pubblica sembra ignorare del tutto il rapporto tra la situazione sociopolitica e la collocazione internazionale del Paese.
L'Italia della Prima Repubblica (1945-1992) fu, in generale, in grado
di trarre alcuni vantaggi dal vincolo atlantico per alcune precise
contingenze internazionali e per la situazione politica di quella fase
storica. A partire da queste contingenze, se pur in modo conflittuale, fu reso possibile un miglioramento complessivo
delle condizioni del Paese. Del resto, l'esperienza della Prima
Repubblica può leggersi in modo proprio soltanto sotto la lente della “sovranità limitata” imposta all'Italia dall'occupazione statunitense.
L'odierna mancanza di una politica estera definita e risoluta si spiega con una concezione della realtà ferma a quella del mondo diviso in due blocchi:
una concezione che partiva dalla necessità – e non da una scelta – di
appartenere allo schieramento atlantico, prodotta dall'occupazione
militare “alleata”.
A differenza dell'occupazione statunitense – con cui l'Italia si trova tutt'oggi a dover far i conti – quei vantaggi che negli anni della Prima Repubblica hanno sedotto e forse un po' intontito l'Italia, oggi sono ormai soltanto un ricordo.
La
strategia di avvinghiarsi agli Stati Uniti agitando l'incombenza di una
qualche minaccia (ieri il comunismo sovietico, oggi l'asse
Pechino-Mosca) e perdendo di vista i reali interessi nazionali (Figura 2)
non potrà che concludersi in un disastro. Non diversamente, in effetti,
dall'adagiarsi alla condizione di santabarbara atomica di Washington,
nell'illusione di poter trarre da questo chissà quali vantaggi.
La presenza permanente sul territorio italiano di – almeno – 13.000 militari statunitensi (Figura 3) non è il risultato di un'alleanza, bensì di una disfatta militare e di un'occupazione:
riscoprire una memoria lucida del significato dell'occupazione
angloamericana potrebbe contribuire a far tornare cosciente l'Italia.
Negli ultimi trent'anni gli interventi militari voluti dagli Stati Uniti
- spesso sotto le insegne atlantiche – hanno ridotto in macerie
tasselli importanti - se non fondamentali – della proiezione
internazionale dell'Italia, come la Somalia, la ex-Yugoslavia, la Libia,
la Siria.
Quasi sempre, anziché opporsi, l'Italia ha sostenuto questi interventi (Figura 4) in nome degli interessi statunitensi, compromettendo la propria credibilità
sul panorama internazionale, le proprie relazioni, e i propri bilanci
pubblici: migliaia di militari italiani presenti nel Vicino Oriente
vengono messi a repentaglio da missioni la cui natura è spesso assai
distante dai reali interessi nazionali.
In un contesto globale sempre più multipolare, si fatica a cogliere il senso dell'Alleanza Atlantica,
se non nel segno della malridotta strategia di dominio statunitense: un
dominio perpetrato a più livelli anche all'interno dei paesi “alleati”,
coadiuvato da collaudati schemi clientelari.
Ciononostante alcuni
settori del ceto politico italiano, dell'imprenditoria e delle
istituzioni sono soliti ripetere, con un fare quasi liturgico,
l'importanza del vincolo morale e valoriale tra l'Europa e gli Stati
Uniti. La dichiarazione di fede incondizionata all'Alleanza Atlantica
appare il principale argomento per distogliere il Paese da critiche ed
osservazioni sull'argomento: un atteggiamento che l'Italia non può
permettersi, se non al prezzo della sua decadenza economica, politica e
morale.
Il maldestro tentativo di tenere in piedi un malridotto status quo– o di rimettere in scena copioni obsoleti – palesa i suoi risultati di
giorno in giorno nella stagnazione del Paese, nella compressione dello
stato sociale, nella deindustrializzazione e nell'immigrazione giovanile
di massa verso l'estero.
Al contempo, una parte consistente
dell'intellighenzia italiana si sta dimostrando pigra e riluttante a
sviluppare una concezione del Paese propria ed orientata da e verso i
suoi reali bisogni: ciò che risulta da questa indolenza è l'immiserimento della politica e la fatiscenza delle istituzioni italiane.
Vari settori dell'intellighenzia italiana si mostrano assai lontani dal
produrre idee attinenti ai problemi nazionali, e sopratutto al come
poterli affrontare in modo risolutivo: la decadenza della cultura e
dell'identità nazionale finisce per favorire le storpiature xenofobe e reazionarie
di queste. Tutto ciò contribuisce al malcontento popolare, alla
sfiducia nei confronti delle istituzioni ed al disprezzo nei confronti
della politica.
L'intellighenzia italiana, assuefatta alla indolenza in cui versa il Paese, oscilla tra l'orientare la sua debolezza in chiave atlantica o in chiave franco-tedesca.
Per
alcuni l'antidoto al predominio americano sull'Italia consisterebbe
nell'accodarsi a qualunque condizione ai piani delle cancellerie di
Berlino e Parigi, cancellerie che in innumerevoli circostanze hanno
dimostrato di non aver alcuna intenzione di considerare Roma un interlocutore alla pari,
o un reale alleato. Nonostante gli abbondanti buoni propositi, la
realtà dei fatti palesa un'Unione Europea dominata da interessi in larga
misura contrapposti a quelli italiani: in questo senso sotto il profilo
della realpolitik in Italia si dovrebbe finalmente ammettere – magari
ridimensionando inopportune retoriche – la mancanza di alleati di peso
nel perimetro dell'Unione Europea.
Per altri la risposta alla
pressione (produttiva, monetaria, militare) franco-tedesca consisterebbe
nello stringere ulteriormente il rapporto atlantico e nella pretesa di
un rapporto “privilegiato” – o “esclusivo” – con gli Stati Uniti. Quasi
come se Washington non pensasse l'Italia esclusivamente come un
avamposto strategico e come una pedina della propria politica estera.
Quel che è da escludere in modo categorico è che la debolezza complessiva del paese sia destinata a prospettare ricchezza e prosperità.
Illudersi – ed illudere – che l'Italia si trovi a fare i conti con una
realtà diversa da questa non farà che aggravare un quadro già
complicato. All'Italia non resta dunque che cominciare a badare a se
stessa, prendendosi la responsabilità dei propri problemi.
L'Italia,
seppur silenziosamente e di fatto senza alcuna convinzione reale,
continua a sostenere l'impianto delle sanzioni contro Federazione Russa, Iran e Siria.
Con la Siria l'Italia ha rotto le relazioni diplomatiche nell'ormai lontano 2011,
all'alba della sua destabilizzazione: prima di allora ne era un partner
fondamentale. Nonostante il buon senso suggerisca la necessità di
voltare pagina e di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Siria,
in Italia diventa addirittura inaccettabile che la televisione di stato
trasmetta un'intervista al presidente Bashar al-Assad, simbolo del
fallimento della campagna di Siria.
La questione libica è forse l'ambito più esplicativo della debolezza italiana:
malgrado gli appelli al cessate il fuoco mossi da varie parti – tra cui
la Russia e l'Italia – la situazione libica non appare affatto volgere
verso una risoluzione pacifica nemmeno dopo i Lavori della Conferenza di
Berlino. Poche sono le voci disposte ad ammettere che l'invasione della
Libia – voluta dai principali “alleati” del nostro paese – sia costata a
quell'Italia “protesa nel Mediterraneo” la sua più rovinosa sconfitta dalla fine della seconda guerra mondiale.
In un'intervista dello scorso novembre l'ambasciatore della Federazione Russa in Italia Sergej Razov dichiarava: “I nostri approcci [quelli di Roma e di Mosca, NdA] rispetto
al problema libico coincidono largamente. Chiediamo a tutte le parti
coinvolte nel conflitto di cessare il fuoco, supportiamo l'idea di
tenere un vertice internazionale di alto livello con la partecipazione
di tutti i paesi interessati, così come quella di convocare un forum
pan-libico”.
Mentre il declino del paese si fa più grave di giorno in giorno la
necessità di superare il sistema di vincoli transalpini e transatlantici
in cui l'Italia si trova stretta emerge in tutta la sua attualità.
Si rende dunque improrogabile un cambio di paradigma che, con una prospettiva mediterranea e al contempo continentale, permetta all'Italia di configurare i propri rapporti strategici senza alcun genere di preclusione (Figura 5).
L'Italia
si protende in un mare che a dispetto delle sue dimensioni resta forse
lo spazio marittimo più importante del pianeta: riuscire a tenerlo a
mente sarebbe già un buon risultato.
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