Da ormai un decennio viviamo i postumi di
una massacrante crisi economica e finanziaria che ha lasciato
strascichi incommensurabili. Il nostro paese, come l’intera periferia
europea (e ormai anche le aree più ricche
del continente), è investito da una crisi di portata storica:
disoccupazione a due cifre, salari da fame, precarietà del lavoro,
carenza di servizi pubblici e di adeguati ammortizzatori sociali. In
questo scenario drammatico, tuttavia, emergono delle disparità
territoriali che mostrano tutte le contraddizioni del sistema economico
in cui viviamo. Nel caso dell’Italia, ad esempio, la disoccupazione al
Sud si attesta al 18%, coinvolgendo circa 1 milione e mezzo di persone.
Niente di comparabile a ciò che accade al Centro e al Nord dove, sebbene
sostenuta, la disoccupazione si ‘ferma’ rispettivamente al 9 e al 7
percento. Stesso discorso qualora facessimo riferimento al reddito
pro-capite: è infatti rilevante la forbice che esiste tra i circa 18mila
euro medi della Calabria (la regione più povera) e i 38mila della
Lombardia. Questo lo spaccato di un paese in cui la crisi e le
successive politiche di austerità in ossequio ai vincoli europei hanno
ampliato i differenziali tra individui residenti in diverse regioni, e,
da Siracusa a Bolzano, fatto impennare disuguaglianza e disoccupazione.
Un paese diviso in due, quindi, che a qualcuno ha ricordato la storica divisione tra Germania Est e Ovest. Stiamo parlando di Pietro Ichino e Tito Boeri, due personaggi che hanno spesso fatto capolino tra le pagine del nostro blog, mai per prendersi complimenti.
Ci raccontano, i due economisti, che Italia e Germania presentano
simili caratteristiche in termini di divisione territoriale: in Italia,
la produttività del lavoro è più alta al Nord che al Sud, così come
accade in Germania, con l’Ovest più produttivo dell’Est. Tuttavia, nella
‘moderna’ Germania opererebbe un meccanismo di contrattazione
decentralizzata – l’esatto contrario della contrattazione collettiva,
che Ichino bollina come perversa
– che permetterebbe di ‘allineare’ i salari alla produttività del
lavoro, così da rendere più efficiente il processo di allocazione delle
risorse e, magicamente, favorire la crescita economica. Detta così
sembra una questione maledettamente tecnica (e potenzialmente di buone
speranze), ma ricostruiamo l’Ichino-Boeri pensiero per capire che,
purtroppo, le cose stanno peggio di quello che sembrano.
Ichino &
Boeri partono da due constatazioni. In prima battuta, dal loro punto di
vista ad oggi in Italia esiste un’uguaglianza nominale dei salari tra
Nord e Sud potenzialmente dannosa: lo stipendio di un insegnante,
quantificato come euro in busta paga, è lo stesso tra Nord e Sud, ma
l’insegnante del Sud ha un potere di acquisto maggiore rispetto al suo
omologo del Nord perché al Sud la vita costa meno (dice Ichino che un
insegnante di scuola elementare guadagna in termini reali il 32% in meno
a Milano rispetto a Ragusa...). In secondo luogo, al Sud i salari
sarebbero, sempre stando all’Ichino-Boeri pensiero, troppo alti rispetto
alla produttività: in proporzione ai loro colleghi del Nord, i
lavoratori del Sud si approprierebbero di una fetta più grande di quella
che gli spetterebbe, contribuendo così a determinare l’alta
disoccupazione in quanto tutto ciò incentiverebbe i padroni a cercare
lavoratori in nero. L’occupazione non sarebbe, stando a questa
impostazione, determinata dalla domanda di beni e servizi (e dunque,
specialmente in tempi di vacche magre, dall’orientamento delle politiche
fiscali e degli investimenti pubblici): piuttosto, la presenza di
disoccupazione dipenderebbe da un livello del salario reale troppo
elevato che scoraggerebbe le imprese ad assumere. Pertanto, ridurre i
salari consentirebbe di ridurre anche la disoccupazione. È questa la
logica che ha animato tutte le riforme liberiste del mercato del lavoro
dell’ultimo trentennio: contenere i salari per aumentare l’occupazione,
una strategia ampiamente smentita sia dal punto di vista teorico che empirico. Ma torniamo a noi, e vediamo dove vogliono andare a parere Boeri e Ichino.
La principale implicazione di policy del lavoro dei due economisti, afferma Ichino,
sarebbe la seguente: “Se consentissimo che i salari si possano
determinare (…) a livello di ciascuna azienda e senza restrizioni su
base nazionale, il risultato sarebbe un aumento dell’occupazione al
Sud”. Si stima, nello studio in questione,
che la decentralizzazione della contrattazione avrebbe un
effetto positivo sull’occupazione del Sud del 13%, e, udite udite, un
effetto positivo anche sulle retribuzioni (di circa 100 euro). Ma non
dovevano scendere queste retribuzioni al Sud...? Sembrerebbe, tutto
sommato, la panacea di tutti i mali, e a riprova di ciò, i due alfieri
del liberismo portano l’esempio della moderna Germania, in cui alla
contrattazione collettiva è stata sostituita quella decentralizzata.
All’indomani dell’unificazione, infatti, vennero uguagliate le
retribuzioni nominali su tutto il territorio. Tuttavia, secondo Ichino, i
tedeschi si accorsero che “questa soluzione aveva difetti gravi”
(sic!). Fu allora che venne adottato un sistema di contrattazione
salariale più flessibile con l’introduzione delle ‘clausole di
apertura’: di fatto, con questa riforma si permetteva alle imprese e ai
sindacati di trovare accordi a livello aziendale che potevano uscire dai
binari dei contratti nazionali. Il risultato? Beh, per quanto i divari
retributivi in Germania si siano allargati in termini nominali (vale a
dire che un operaio della Germania dell’Est percepisce in busta paga
meno euro del suo omologo bavarese), nella prospettiva di Ichino &
Boeri ciò avrebbe portato benefici ad entrambe le aree tedesche in
quanto si sarebbero allineati quelli in termini reali, e questo avrebbe
avuto effetti anche sugli stipendi pubblici (dice sempre Ichino che un
insegnante tedesco guadagna in termini reali solo il 5% in più in
Baviera rispetto alla Sassonia).
Ad Ichino fa eco proprio Boeri, il quale
afferma, senza troppe giri di parole, che il profondo divario tra le
regioni italiane ha una semplice spiegazione: rapportati ai prezzi e
alla produttività, i salari sono troppo bassi al Nord e troppo alti al Sud,
e ciò dipenderebbe dall’esistenza di una contrattazione collettiva su
base nazionale. In sostanza, le stesse conclusioni a cui arriva il suo
collega e coautore.
Un’Italia, dunque, dipinta come divisa in
due sul piano territoriale con il solito obiettivo di mettere i
lavoratori gli uni contro gli altri: giovani contro vecchi, precari
contro ‘tutelati’, lavoratori del Nord contro lavoratori del Sud. Tutto,
in barba alla realtà dei fatti, che ci racconta di una cronica
emigrazione dal Sud al Nord del paese, dove gli standard di vita, le
produzioni industriali e l’occupazione invece sono da sempre più alti.
Nessuna soluzione ‘progressista’ per
uscire da questa situazione, quindi. Tutt’altro: l’esaltazione della
contrattazione decentralizzata, delle logiche di mercato più spicciole
al livello più basso possibile della partita distributiva. Ed ecco che,
tanto per cambiare, la ricetta tedesca diventa buona anche per l’Italia:
il Sud dovrebbe permetterebbe ai propri salari nominali di scendere, riallineandosi alla produttività e a livello dei prezzi.
Così facendo, al Sud i salari in termini reali si ridurrebbero (in
altri termini, ogni lavoratore vedrebbe diminuire il proprio potere
d’acquisto) e le imprese delle aree più disagiate del paese sarebbero
incentivate ad assumere lavoratori, contribuendo così a rilanciare
occupazione e crescita economica. Come sarebbe possibile tutto ciò? Abolendo la contrattazione collettiva e lasciando che le retribuzioni siano determinate a livello aziendale,
senza nessun ‘pavimento’ normativo o riferimento su base nazionale,
frutto di anni di faticose lotte sindacali e operaie in cui si facevano
le barricate per la difesa del lavoro e del salario. Così facendo
dunque, i due economisti ci aiutano anche a gettare il velo che copre
l’ipocrisia padronale e le proposte di politica economica che siamo
abituati a sentire sbandierate su giornali e televisioni: diffondere la
contrattazione aziendale, proposta spesso ammantata di tanti buoni
propositi, non serve ad altro che ad indebolire il potere contrattuale
dei lavoratori e favorire la riduzione dei salari. Ma, pur ammettendo
che ciò avvenga, non è certo questo il viatico per aumentare
l’occupazione.
Da un lato, recenti studi hanno dimostrato che i livelli salariali sono già inferiori al Sud di circa il 15-20% rispetto al Nord: reintrodurre le gabbie salariali
pagando i lavoratori in base alla loro produttività su scala
territoriale o aziendale non farebbe altro che aumentare questo
differenziale, in quanto la produttività è già più bassa al Sud che al Nord,
differenziale che riflette le diverse strutture produttive delle due
aree del paese. Occorre inoltre precisare che, spostandoci appena al di
fuori dallo schema più ortodosso di analisi economica, nessun economista
si spinge a considerare la produttività del lavoro come esclusivamente
dipendente dallo ‘sforzo’ del lavoratore, bensì una variabile connessa
alle strategie di investimento delle imprese (se un’impresa investe in
macchinari ad alto contenuto tecnologico, il lavoratore che li usa
aumenterà il proprio prodotto per unità di tempo), del contesto in cui
operano (presenza di strade, reti di comunicazione reali e informatiche,
etc.) e da altri fattori di natura istituzionale. Questi elementi fanno
sorgere un ulteriore problema di equità delle gabbie salariali: al Sud,
tutti questi fattori (tecnologia, infrastrutture, etc.) latitano,
contribuendo di fatto a frenare la crescita della produttività del
lavoro.
Dall’altro, i servizi pubblici di cui un lavoratore del Sud dispone sono lungi dall’essere comparabili
con quelli del Nord Italia. Se davvero vogliamo credere che le
retribuzioni in termini reali siano più alte al Sud, la cronica mancanza
di scuole, ospedali, strade e servizi di pubblica utilità non fa altro
che peggiorare le condizioni materiali di un lavoratore del Mezzogiorno.
In questa prospettiva, l’ultimo rapporto SVIMEZ, oltre a presentare un quadro esaustivo
dei differenziali economici e sociali tra Nord e Sud, insiste sul fatto
che lo Stato sta sistematicamente investendo meno nel meridione
rispetto alle altre aree del paese (per il 2018 si calcolano 3,5
miliardi di investimenti in meno rispetto alle aree più ricche),
contribuendo in questo modo ad aprire il divario con il Nord. Infine, in
barba alla storiella dei ‘salari troppo alti’ al Sud, proprio nel
rapporto SVIMEZ si indica che nel 2018 i consumi, sebbene stagnanti in
tutto il Paese, sono cresciuti meno al Sud che al Nord (+0,2 contro il
+0,7 nel resto del Paese), con il Mezzogiorno ancora al di sotto di 9
punti percentuali rispetto al livello di consumi del 2008, ad ulteriore
conferma dell’anemica dinamica salariale. Del resto, viene da chiedersi
perché se al Sud si sta così meglio e si percepiscono salari tanto più
alti rispetto al Nord, i lavoratori del nord, ivi compresi Ichino e
Boeri, non decidano di trasferirsi a Caltanissetta...
Ecco che allora la proposta dei due
economisti, se spogliata dai tecnicismi di un’economia fintamente
neutrale e dalla retorica dell’ammodernamento del Sud Italia, si
presenta in tutta la sua veste demagogica e classista verso gli ultimi: siete meno produttivi, dovete pretendere di meno. È la frusta del padrone, il cui effetto sarebbe esacerbato, nella prospettiva di Ichino e Boeri, su scala aziendale.
Ma se ridurre i salari è il vero scopo
dei due economisti, questo certo non servirebbe a risolvere la questione
economica del Sud e in genere di tutto il paese. Quello che invece
servirebbe per combattere disoccupazione e povertà (specialmente al Sud)
è un intervento dello Stato in termini di sostegno diretto agli
investimenti e all’occupazione, e una decisa politica di sostegno ai
salari, invece che ridurli, che aiuterebbe a modificare la distribuzione
iniqua del reddito e a dare sostegno alla domanda aggregata. Politiche
incompatibili, quando non espressamente vietate, con l’assetto istituzionale dell’Unione Europea.
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