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23/01/2020

Criticare John Kennedy è possibile

di Gianluca Cicinelli

Si può parlare di John Fitzgerald Kennedy criticandolo e persino ritenendolo uno dei peggiori presidenti nella storia degli Stati Uniti: ho verificato tutti gli articoli del codice penale e civile e non è reato, credetemi. Mi era venuto il dubbio dopo decenni in cui sulla stampa progressista non ho mai trovato una riflessione che non fosse iconografica se non agiografica nella maggior parte dei casi.

Il 20 gennaio 1961 – quando entra in carica come trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti – John F. Kennedy pronuncia lo storico discorso la cui frase chiave che verrà ricordata è «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese». L’intera famiglia Kennedy non amava molto le critiche e JFK usò spesso il grande potere che aveva e la sua corte per escludere dalla vita pubblica giornalisti e autori di saggi critici non entusiasti delle sue politiche. Ce lo racconta Jill Abramson, ex direttrice del New York Times che raccolse le confidenze di uomini influenti al tempo di Kennedy come Arthur Schlesinger. Quando parliamo quindi del mito di JFK non possiamo dimenticare questo aspetto nel considerare il suo breve periodo rispetto all’alone di leggenda che lo circonda.

Lo storico Eric Hobsbawm ne «Il secolo breve» lo definiva il «più sopravvalutato presidente americano del nostro secolo». Quasi tutti i ragionamenti su Kennedy si riferiscono a cosa avrebbe fatto in relazione alle azioni dei suoi successori, nulla che si possa provare realmente, data la tragica scomparsa nel complotto che ha portato alla sua eliminazione fisica a Dallas il 22 novembre del 1963. Il “Civil Rights Act”, cento anni dopo la guerra di secessione americana, è sicuramente una buona legge voluta da JFK, perchè dichiara illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale. È di sicuro il punto più alto dell’azione politica di Kennedy per le conseguenze in una società che resta profondamente razzista. È anche però il segnale di un limite che caratterizza ancora oggi le azioni dei progressisti nel mondo, un forte intervento sul piano dei diritti che lascia intatte le disparità sociali ed economiche che sono alla base di quelle discriminazioni.

Non si può separare la vicenda di JFK da quella della sua famiglia e non è una storia edificante. Anche qui le disavventure e le morti tragiche di molti suoi componenti hanno impedito di descriverla per quello che è stata.

Il capostite del ventesimo secolo, Joseph Patrick detto Joe, lo racconta Edward Klein ne «La maledizione dei Kennedy»: ambasciatore Usa a Londra dal 1938 al ’40, ammirava Hitler ed era antisemita. Costruì la sua fortuna economica come “boottlegger”, contrabbandiere di alcol durante il proibizionismo, associandosi a Frank Costello, un mafioso che la stampa soprannominò «il primo ministro della malavita», in stretti rapporti con Lucky Luciano. Alcuni storici fanno risalire proprio a questo rapporto con Cosa nostra americana le origini dell’omicidio del figlio John a Dallas, anche se rimane un’ipotesi fra altre. La tessitura di una fitta rete fra potere economico, influenza nei gangli amministrativi, impatto mediatico con la proprietà della produzione cinematografica Rko, protezione criminale e potere politico, rappresenta l’azione che portò al consenso per l’elezione di JFK.

Bisogna anche dire che – tranne per Walter Veltroni – il fascino della presidenza Kennedy nell’immaginario progressista ha perso terreno. Se durante Kennedy le ingerenze Usa nelle guerre del mondo erano ancora ben viste da alcuni come contrasto all’azione dei comunisti sovietici e come ricordo dell’intervento liberatorio in Europa nella seconda guerra mondiale, adesso è abbastanza chiara la strumentalità degli interventi yankee con la scusa di riportare la democrazia. Afghanistan e Iraq in tempi recenti, promozione dei golpe in Sudamerica a cominciare dal Cile, sabotaggio della rivoluzione sandinista in Nicaragua, appoggio agli squadroni della morte in Salvador, invasione di Grenada: il peccato originale da cui derivano le invasioni statunitensi nel mondo risiede nella sciagurata escalation della guerra in Vietnam in cui John Kennedy ha giocato un ruolo cruciale. Gli Usa erano presenti da prima di Kennedy, ma fu lui a decidere di avallare l’omicidio di Ngô Đình Diệm – presidente del Vietnam del Sud – e a potenziare la presenza militare Usa per dare un segnale forte in piena guerra fredda. Le conseguenze in termini di vite umane sono note, la sconfitta militare degli Usa anche.

In precedenza però, sempre a causa di JFK, il mondo aveva rischiato la terza guerra mondiale. Prima Kennedy organizzò alla Baia dei Porci un tentativo, fallito miseramente, di rovesciare il governo cubano guidato da Fidel Castro. Poi quando per questo motivo – e per la decisione Usa d’insediare i missili Jupiter in Turchia – il leader sovietico Nikita Krusciov volle portare i suoi missili sull’isola caraibica e Kennedy gestì la crisi esasperandola al punto di arrivare sull’orlo del conflitto.

Non entriamo qui nei dettagli della sua vita privata, gli infiniti tradimenti coniugali li citiamo solo perchè ci ricordano l’ipocrisia di alcuni leader cattolici nostrani e Kennedy fu il primo presidente Usa cattolico. Tuttavia le numerose presenze clandestine femminili all’interno della Casa Bianca aprirono una breccia anche nei sistemi di sicurezza interni e nella possibile – ma non dimostrata – ricattabilità del presidente.

Un ruolo cruciale nella (esagerata) esaltazione della presidenza Kennedy lo ebbe il costume dell’epoca affidato alle cronache dei mass media. La capacità di sorridere alle telecamere, d’intervallare con battute e finta umiltà le interviste, una first lady dinamica, hanno di sicuro aperto una strada a molte altre carriere politiche che vennero dopo JFK. Ma è davvero poco per dire che sia stato un grande presidente degli Stati Uniti.

Le immagini sono riprese dalla rete. Quella di Jackie Kennedy, in stile diva e “Madonna” moderna, è un’elaborazione di Andy Warhol. Le copertine dei due libri di Noam Chomsky (tradotti in italiano da Eleuthera) completano magistralmente questa scor-data: nel primo caso per demolire il mito Kennedy come “una fase magica” della storia statunitense; nel secondo per rintracciare le radici e raccontare le pratiche dell’imperialismo a stelle-e-strisce.

In “bottega” abbiamo raccontato qui Scor-date: 22 novembre 1963 la morte di John Kennedy e altre storie intrecciate o parallele.

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