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28/01/2020

Fussi elettorali. Guardiamo in faccia la realtà...

Non condivido lo sperticarsi nel sostenere un approccio alle tornate elettorali che ha dimostrato sufficientemente la propria inutilità (oltretutto quando alle spalle ha una visione del mondo che si limita a retorica da manifestazione e relativo volantino da distribuire in strada, ma è quasi del tutto priva di spessore intellettuale), comunque largo alle opinioni sulla faccenda.

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Il giorno dopo le elezioni si sprecano le “analisi”. Dilettanti e professionisti della politica si interrogano e si danno una spiegazione, in genere per confermare i propri pregiudizi (in senso tecnico: i giudizi dati prima delle elezioni stesse, nonostante il risultato sia stato quasi sempre per loro “sorprendente”).

Per quanto riguarda l’Emilia Romagna, ad esempio, questo sforzo di “analisi” – soprattutto “a sinistra” – si riduce al solito “se vi univate prima sareste stati più credibili”, alludendo al fatto che si sono presentate ben tre liste non apparentate con il Pd, tutte finite ben sotto l’1%. Messe insieme – con uno sforzo considerevole, viste le ampie differenze di visione e di pratica politica – avrebbero a malapena raggiunto proprio l’1%. Ossia il livello che da qualche anno ricevono liste “unitarie” partite con lo scopo di “creare un campo più largo”. Chiacchiere, diciamolo chiaro.

Nessuna considerazione arriva, invece, sulle condizioni strategiche in cui tutti viviamo da almeno tre decenni (da dopo la “caduta del Muro”, che ha gravemente menomato la credibilità sociale della nostra “visione del mondo,” e la firma dei trattati da Maastricht in poi, che hanno sottratto molta della “sovranità” agli Stati nazionali e quindi svuotato “la politica” di gran parte delle sue possibilità di azione).

Nessuna considerazione – ed è ancor più sorprendente – sul gioco truccato con le leggi elettorali “maggioritarie”, che costringono il singolo elettore a scegliere non la forza politica e il candidato che sente “più vicino”, ma quelli “meno lontani”, perché con quelle regole lo scopo diventa impedire che qualcun altro vinca. Non vincere.

Ma abbandoniamo subito questo livello di dibattito da social, e vediamo di analizzare obiettivamente i flussi elettorali reali – quelli sui “grandi numeri” – per comprendere più realisticamente la “psicologia politica di massa” oggi in Italia.

Ci aiutiamo con il lavoro dell’Istituto Cattaneo, unanimemente considerato il massimo della scientificità statistica in materia.

“Da dove deriva dunque il successo, superiore rispetto alle aspettative, per Bonaccini e per il centrosinistra? L’analisi dei flussi elettorali che abbiamo condotto su 4 città (Forlì, Ferrara, Parma, Ravenna) mette in rilievo il ruolo determinante dei cinquestelle sull’esito del voto. I due candidati hanno fatto quasi il pieno dei rispettivi elettorati (Figure 2 e 3), quindi le scelte degli elettori delle terze forze – in particolar modo del M5s – si sono rivelate decisive.”

Fin dall’inizio, dunque, l’analisi del Cattaneo coglie la dinamica evidente in queste elezioni: chi in precedenza aveva votato Cinque Stelle ha stavolta preferito appoggiare Bonaccini e il Pd pur di battere Salvini (Lucia Borgonzoni, da sola, non avrebbe messo paura a nessuno).

Un dato che può essere persino disaggregato per singole città, restituendo un quadro univoco:

“Come mostra il Grafico 1, molti elettori pentastellati (il 71,5% a Forlì, il 62,7% a Parma, il 48,1% a Ferrara) hanno scelto la candidatura di Bonaccini e solo una minoranza ha deciso di optare per il candidato del M5s (Simone Benini) o per il centrodestra di Borgonzoni. Nello specifico, gli elettori del M5s alle Europee 2019 che hanno scelto Benini sono stati il 23,4% a Ferrara, il 16,6% a Parma, il 12,6% a Forlì”.


Si può naturalmente discutere se il candidato scelto dal M5S fosse il migliore, il più popolare e riconosciuto anche tra i suoi. Ma scostamenti così consistenti (tra il 50 e il 70%!) non possono davvero essere spiegati con il giudizio poco lusinghiero sul “proprio” candidato. Ci deve essere una ragione politica molto più costrittiva.

La stessa dinamica, infatti, si osserva anche tra gli elettori che in precedenza sosteneva la “sinistra radicale”.

“Va evidenziata anche la capacità di Bonaccini di conquistare voti tra gli elettori delle liste di “sinistra”. Nel caso di Ferrara, ad esempio, il 61,4% di chi nel 2019 aveva votato per un partito a sinistra del PD ha scelto Bonaccini, e in misura superiore lo stesso fenomeno si è osservato anche a Forlì (71,4%).”


A Folrì, insomma, il 74% degli elettori “di sinistra” ha votato per Bonaccini. Addirittura oltre il 90% a Ravenna, oltre il 60 a Ferrara...

Alla base di questi flussi, insomma, c’è chiaramente la paura, non una convinzione politica positiva. Chi è andato a votare era indifferente a qualsiasi “contenuto programmatico” o bandiera ideale. Lo ha fatto per stoppare quello che era considerato un pericolo mortale. O comunque talmente grande da superare anche le obiezioni critiche contro Pd, Bonaccini, sistema delle cooperative, strapotere Unipol e gestione privatistica delle “partecipate”, nonché i tagli alla sanità e al trasporto pubblici.

Avrebbero votato anche una sedia vuota. L’importante era che non vincesse la Lega. È questo l’effetto della “peste del voto utile”, che divora ogni possibile alternativa imponendo la confluenza sul “meno peggio”.

Ma se è così, allora non ha alcun senso positivo star lì a questionare sulla “mancanza di unità” tra le forze a sinistra del Pd. Serve solo a deprimersi ancora di più e ad approfondire i rancori. Ossia quello che è già avvenuto dopo ogni elezione in cui si “faceva la lista unitaria” per poi scioglierla all’indomani di un voto inevitabilmente deludente (è dal 1994 che si vota con il sistema maggioritario e “per battere la destra” – prima Berlusconi, ora Salvini).

Per essere “credibili” anche sul piano elettorale serve una visione del mondo altrettanto credibile (non un “annacquamento” delle proprie ragioni o lo sbandieramento ideologico indifferente alle “condizioni storicamente determinate”). Se “il comunismo” non è più una visione del mondo “popolare”, e non si fa granché per restituirgli la capacità di spiegare come funziona questo mondo e trovare la strada per superarne i limiti, come si può pretendere di essere “premiati” con il voto?

Serve aver seminato radicamento territoriale con pratiche che aiutano effettivamente il nostro “blocco sociale” a superare almeno alcuni dei problemi che deve affrontare quotidianamente. Serve organizzazione funzionante, solidarietà effettiva tra situazioni anche lontane tra loro; non apatia, individualismo, autoconsolazione e impotenza.

Serve alzare lo sguardo dal proprio orticello improduttivo e riconoscere nell’agire collettivo l’unica via per ritrovare “corpo”, attività e presenza non irrilevante. Anche sul piano elettorale, prima o poi. Perché si raccoglie quel che si è seminato e curato, non altro.

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