Il tema dell’immigrazione ha rappresentato (e rappresenterà) una
delle questioni fondamentali intorno a cui si giocherà la partita della
nostra internità tra i salariati e la nostra capacità di esercitare (non
solo tra di essi) una qualche forma di egemonia, non fosse altro che
per la funzione divisiva che tale questione ha svolto nella classe negli
ultimi anni e la centralità che ha assunto nel dibattito pubblico. E
il fatto di non avere uno straccio di strategia politica in merito, né
una analisi condivisa delle radici del fenomeno nella sua concreta
attualità certamente non ci aiuta.
Per essere più chiari, sappiamo bene che la storia dell’umanità è
contrassegnata dalle continue migrazioni di esseri umani e che, anzi,
queste ne sono parte costituente e imprescindibile, ma fermandoci a
questa lettura, che potremmo definire quasi “etologica”
dell’immigrazione, corriamo il rischio di “naturalizzare” un fenomeno
che invece è sociale, e quindi “storico”, e che dunque va analizzato e
compreso nello specifico contesto in cui si determina. Stiamo parlando
di milioni di esseri umani, delle loro vite e delle loro storie e non di
uccelli o di balene che “migrano” da nord a sud in funzione delle
stagioni o dei cicli vitali. Questo dev’essere chiaro perché altrimenti
si finisce per rimuovere, pur senza volerlo, il semplice fatto (si fa
per dire) che nel mondo contemporaneo i principali “push factor” dei
movimenti migratori (come gli “esperti” chiamano i fattori che spingono
milioni di persone a spostarsi dai luoghi in cui sono nate) sono
comunque riconducibili al modo di produzione capitalistico nella sua
fase imperialista e alla maniera (ineguale) con cui esso disegna i
rapporti sociali tra classi, popoli e stati. Una considerazione come
questa dovrebbe risultare persino banale per chi annovera il barbone di
Treviri tra i suoi padri putativi, ma mai come in questo caso il
condizionale è d’obbligo.
A leggere infatti alcune delle riflessioni che vanno per la maggiore
in questo momento sul tema dell’immigrazione ci sembra di poter dire che
la rimozione, più o meno consapevole, di quello che a questo punto
potremmo chiamare “imperialist factor”, sia un tratto comune tanto alla
cosiddetta “sinistra buonista” quanto a quella “cattivista” che, pur se
minoritaria, sta provando a costituirsi in antitesi alla prima
immaginandosi più pragmatica e realista, ma risultando, però,
altrettanto astratta e inutilmente cinica.
Proviamo a spiegarci meglio trattando brevemente alcune delle
posizioni che oggi risultano maggioritarie nel nostro campo e che però,
pur poggiando su un lodevole e meritorio solidarismo etico di fondo, non
sembrano in grado di sciogliere i nodi politici della questione né,
tantomeno, di prendere di petto le innegabili contraddizioni generate
dai flussi migratori, preferendo piuttosto rimuoverli e fare finta che
non esistano. Parlare esclusivamente di “libertà di movimento” senza, al contempo, affrontare la questione principale che invece è quella della negazione della “libertà di restare”
può andare bene per i figli colti delle élite globali che decidono di
spendere dove meglio credono le loro potenzialità, le “skills” acquisite
nelle università di prestigio, ma è un ragionamento che invece suona
piuttosto ipocrita quando si prova ad applicarlo a chi è costretto a
fuggire dalla povertà, dalla guerra o dalla assoluta assenza di
prospettive. “Costretto”, si, perché quando parliamo di
immigrazione in fondo è proprio di questo che stiamo parlando: di
coercizione al movimento, altro che “libertà”. Che poi questo avvenga
attraverso i meccanismi impersonali delle leggi del mercato globale, per
effetto dei bombardamenti con cui si è soliti “esportare la
democrazia”, per la tirannide di qualche satrapo messo li a difendere
gli interessi della multinazionale di turno oppure a causa di qualche
proxy war o dei disastri ambientali collegati allo sfruttamento
irrazionale delle risorse energetiche, poco cambia. Il concetto di
“libero scelta” è un principio astratto che lascia il tempo che trova di
fronte alla concretezza dell’oppressione economica e sociale.
Anche perché, se ci si riduce ad osservare il fenomeno esclusivamente
da questa prospettiva, si finisce paradossalmente con l’arrivare a
difendere l’immigrazione in quanto “diritto universale” o “diritto
umano” e non gli immigrati in quanto sfruttati, in quanto persone spinte
a spostarsi proprio per la loro condizione di “umani senza diritti”.
Che poi, a pensarci bene, sarebbe un po’ come difendere il sistema
capitalista e la “libertà” di vendere la propria forza lavoro come merce
in cambio di un salario, piuttosto che organizzare i lavoratori
salariati per abbattere il sistema che li genera. Un differenza non
proprio banale e che fa il paio con un altro fraintendimento piuttosto
comune sempre dalle nostre parti, ovvero la convinzione assolutamente
sballata che in un mondo intollerabilmente diseguale l’immigrazione
rappresenti comunque una forma, seppur indiretta, di redistribuzione
della ricchezza verso i meno abbienti, mentre è vero esattamente il
contrario. L’immigrazione è un’ulteriore forma di saccheggio dei paesi
imperialisti a danno dei paesi poveri, dai quali viene importata forza
lavoro a basso costo, spesso anche qualificata e formata a spese del
paese di provenienza, da sfruttare per produrre valore e profitti che
poi resteranno saldamente da questa parte del muro. Non produrrà mai
l’abbattimento di quella frontiera immateriale che separa il nord
globale dal sud globale e nemmeno servirà a ridurre il gap tra centro e
periferia, piuttosto contribuirà ad approfondirlo e a renderlo
strutturale.
È davvero significativo come l’analisi di questi processi di
spoliazione sia stata completamente ribaltata da quando l’Italia si è
trasformata da paese esportatore a paese importatore di manodopera. E
non è nemmeno un caso che alla giusta e sacrosanta indignazione e
commozione per le stragi di immigrati nel Mediterraneo spesso
corrisponda il disinteresse, se non il vero e proprio sostegno
ideologico, nei confronti delle politiche neocoloniali e predatorie
portate avanti dalle cosiddette “nazioni sviluppate”, nonché la totale
indifferenza per quei milioni di persone coinvolte nei movimenti
migratori sud-sud e che non hanno la “fortuna” di risvegliare la pietas
dei media occidentali. Solo per restare all’esempio a noi più vicino
nel tempo, basterebbe riflettere sull’ignavia della “sinistra buonista”
rispetto al recente “golpe del litio” in Bolivia per rendersene conto.
Se queste sono le posizioni della sinistra umanitarista c’è però una
piccola pattuglia di “sovranisti di sinistra” che prova a ritagliarsi un
ruolo costituendosi in antitesi al buonismo mainstream e che proprio
sull’immigrazione sta invece assumendo una postura sempre più
“intransigente”, ma secondo noi altrettanto inconcludente. Senza voler
far torto a nessuno proviamo ad assumere come manifesto politico di
quest’area “Il lavoro importato. Lavoro, salari e stato sociale”
un libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti recentemente pubblicato per i
tipi della Meltemi. Il lavoro dei due professori ha il pregio, almeno
nella prima parte, di prendere il toro per le corna provando a
quantificare il fenomeno e ad indicare le “contraddizioni in seno al
popolo” che ne generano, senza infingimenti e senza tabù. Scrivono i due
autori nel primo capitolo: l’imponente fenomeno migratorio che ha
interessato Francia, Germania, Italia e Regno Unito negli ultimi tre
decenni ha portato, dal 1990 al 2018, la schiera dei nati all’estero che
risiedono in questi quattro paesi da 16,9 milioni a 37,6 milioni, un
numero pari alla popolazione complessiva di Paesi Bassi, Belgio e Svezia.
Sempre stando ai dati forniti dalle Nazioni Unite e dall’Eurostat
l’incremento maggiore in termini assoluti si è registrato in Germania
(7,8 milioni), mentre l’incremento relativo più elevato è invece
avvenuto in Italia in cui la percentuale di immigrati residenti in
trent’anni si è più che quadruplicata, passando dal 2,5% al 10,2%. Come
ricordano gli autori occorre inoltre tener conto del fatto che la
distribuzione degli immigrati sul territorio non è affatto omogenea, ma
si concentra, ovviamente, nelle aree economicamente più sviluppate e
nelle periferie urbane. Così come bisogna aver presente la differenza
che esiste tra i “flussi lordi” e quelli “netti” come misura della
velocità con cui muta la composizione della popolazione immigrata. Barba
e Pivetti ci raccontano pure di come, sempre nei quattro paesi presi in
considerazione, se si tiene conto solamente della forza-lavoro compresa
tra i 20 e i 64 anni di età (118,5 milioni), la percentuale di
immigrati rispetto alla popolazione attiva sale al 16,2% (19,2 milioni).
Restringendo il campo di osservazione all’Italia dal 2005 al 2018 il
numero degli occupati è passato da 21,8 a 22,5 milioni, con un
incremento di 700mila unità, sempre nello stesso periodo, però i
lavoratori occupati nati in Italia sono diminuiti di 800mila unità,
mentre quelli nati all’estero sono aumentati di 1,5 milioni portando
complessivamente a 3,2 milioni i lavoratori immigrati occupati presenti nel nostro Paese e occupati in larga parte nel settore delle
costruzioni, dell’industria, dei servizi sanitari e alla persona e in
quelli a bassa specializzazione. In termini assoluti, con 675 mila
occupati, il settore dei servizi collettivi e personali è quello che
registra la maggiore presenza di lavoratori stranieri, seguito dai circa
400mila operai impiegati nel settore dell’industria in senso stretto,
mentre in termini relativi la percentuale maggiore di lavoratori
immigrati si riscontra nel settore alberghiero e in quello della
ristorazione.
Basterebbero forse questi dati, unitamente a quelli degli inoccupati e
dei disoccupati, per infrangere il primo e più grande dei tabù che ci
si è autoimposti a sinistra sulla questione immigrazione, ovvero il
fatto che tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri non ci sia un
oggettiva “concorrenza” e che la disponibilità a “fare di più per meno”
da parte di questi ultimi (soprattutto se in condizione di irregolarità
imposta) non contribuisca a tenere bassi i salari. Ovviamente se si è
professionisti, docenti universitari o impiegati in qualche start up
digitale questa concorrenza non la si percepisce, anzi al più il proprio
reddito può risultare perfino accresciuto dal fatto che il costo di
alcuni servizi alla persona è livellato verso il basso (badanti,
collaboratori domestici, ecc.), ma negare questo dato di fatto significa
semplicemente non essere mai entrati in un cantiere, in una cucina di
un ristorante o in un magazzino della logistica. Rimuovere una
contraddizione, per quanto spinosa, semplicemente eliminandola dal
proprio campo visivo mettendo la testa sotto la sabbia non significa
risolverla e nemmeno mettersi in condizione di affrontarla, col
risultato che la nostra credibilità nei confronti di chi invece con
questa contraddizione ci fa i conti ogni santo giorno è caduta ai minimi
storici.
Gli aspetti positivi del libro di Barba e Pivetti però si esauriscono
qui, perché appena si passa dalla parte analitica a quella della
proposta politica ci si imbatte in una sequenza di enunciazioni dal
carattere assolutamente regressivo secondo noi irricevibili. Facciamo
però parlare i due autori che, dopo aver constatato l’inservibilità
dell’Unione Europea allo scopo scrivono: Una politica di contrasto
severo dell’immigrazione dovrebbe muoversi lungo quattro linee
principali: la prima riguarda la regolamentazione dei nuovi ingressi; la
seconda l’eliminazione dell’immigrazione irregolare già presente sul
territorio nazionale; la terza il contrasto dei nuovi accessi illegali,
ossia la questione della difesa dei confini nazionali e in special modo
quelli marittimi; infine la quarta riguarda la politica estera dello
Stato Italiano. Dopo aver passato in rassegna una serie di misure
presentate come “concrete”, tra cui citiamo: la restrizione delle
condizioni necessarie al rilascio di permessi di ingresso per motivi
umanitari; l’inasprimento dei parametri necessari al rinnovo del
permesso di soggiorno; la regolamentazione più severa delle norme sul
ricongiungimento familiare attraverso vincoli reddituali e vincoli
relativi al grado e all’età della parentela; la velocizzazione dei
provvedimenti di espulsione che diano allo stesso sempre esecuzione
forzata; l’adozione, come nel Regno Unito, del principio “prima
l’espulsione e poi l’appello” per ovviare ai ricorsi contro i
provvedimenti di espulsione; garantire (visti i costi complessivi
insostenibili, ndr) un numero annuo consistente e sistematico di
rimpatri da utilizzare come fattore di deterrenza; aumentare i
respingimenti alla frontiera, i due autori affermano: rispetto a un
controllo dei flussi migratori così inteso, la principale difficoltà non
è costituita dalla mancanza degli strumenti per attuarlo, né
dall’assenza di un vasto consenso popolare intorno all’opportunità di un
loro impiego. È piuttosto costituita dagli interessi delle imprese e
dal fatto che nel dibattito politico e pubblico la questione dei flussi
migratori e trattata in termini di pulsioni razziste e xenofobe.
Insomma par di capire che per Barba e Pivetti, se davvero volessero
attuare queste politiche di contrasto all’immigrazione, i lavoratori
(italiani, ça va sans dire) sotto la guida dei sovranisti di
sinistra dovrebbero, come prima cosa, “impadronirsi” dello Stato a
dispetto dei (falsi) sovranisti alla Salvini che predicano bene, ma
razzolano male. Allora ci chiediamo: ma una volta prese in mano le leve
della cosa pubblica, perché mai i lavoratori dovrebbero accanirsi contro
i più deboli e non prendersela direttamente con chi concentra in
pochissime mani quasi tutta la ricchezza nazionale? A sentir parlare di
immigrazione esclusivamente in questi termini, sembrerebbe quasi di
trovarsi in una situazione di scarsità oggettiva di beni e di risorse, e
che dunque diminuendo il numero degli individui tra cui dividere la
torta, le fette sarebbero più grandi (per la serie mors tua vita mea).
Ma sappiamo bene che non è così. Per quanto possa essere
controintuitivo in tempi di crisi economica, non ci troviamo in un’epoca
di scarsità ma siamo, piuttosto, in un’epoca di abbondanza. La crisi in
cui il sistema capitalistico si dibatte è una crisi di sovrapproduzione
di beni e capitali, e se non tutti riescono a godere della ricchezza
sociale, o per essere un po’ più precisi, se la stragrande maggioranza
del pianeta non riesce a godere delle immense possibilità di cui
disponiamo, è perché le leggi interne che regolano questo modo di
produzione non lo permettono.
C’è infine un ultimo aspetto del testo (in cui, probabilmente non a
caso, l’imperialismo non viene mai menzionato) su cui vale la pena
soffermarsi perché estremamente significativo rispetto all’operazione
culturale che lo sottende. Per assumere una postura del genere, che
oggettivamente rompe non solo con l’umanitarismo lacrimevole di certa
sinistra ma con il concetto stesso di solidarietà internazionale di
classe, i due sono stati infatti “costretti” a sottoporre a una critica
feroce tanto la tradizione culturale marxista quanto quello che viene
indicato come il suo “peccato originale”: l’internazionalismo
proletario. E l’hanno fatto dedicando un intero quanto raffazzonato
capitolo all’analisi di tre scritti di Lenin sull’immigrazione in cui, a
detta degli autori, si dimostrerebbe come il rivoluzionario russo
considerasse l’anticolonialismo e l’apertura dei confini alla
circolazione dei lavoratori come due lati di una stessa medaglia. A
Lenin i due sembrerebbero inoltre “imputare” (ma qui speriamo di aver
compreso male il passaggio del loro testo) il fatto di essersi opposto
nel corso del Congresso Socialista Internazionale di Stoccarda del 1907
alle tesi che sostenevano la necessità di una “politica coloniale
socialista” e di aver “imposto” invece l’adozione di alcune alcune linee
guida rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti dei lavoratori
immigrati. Nei paesi di immigrazione - si lamentano i due –
bisognava battersi per “l’abolizione di tutte le limitazioni che
escludono o rendono difficile l’accesso a determinate nazionalità o
razze ai diritti sociali, economici e politici dei nativi e alla
naturalizzazione” per “la protezione del lavoro attraverso la riduzione
della giornata lavorativa, stabilendo un salario minimo, l’abolizione
della retribuzione a cottimo, la regolamentazione del lavoro a
domicilio, una rigorosa supervisione delle condizione igieniche e degli
alloggi”; per “l’accesso senza alcuna restrizione degli emigranti ai
sindacati di tutti i paesi” e “l’istituzione di cartelli sindacali
internazionali”. In quelli di emigrazione, invece, per “la propaganda
sindacale attiva”; per “fornire pubblicamente informazioni circa la
situazione reale delle condizioni di lavoro nei paesi di immigrazione”;
“per gli accordi tra sindacati dei paesi di emigrazione e dei paesi
d’immigrazione” e “la vigilanza delle agenzie marittime e degli uffici
d’immigrazione ed eventualmente misure legali ed amministrative a loro
carico, onde impedire che l’emigrazione venga organizzata nell’interesse
delle imprese capitalistiche. Insomma, checché ne dicano Barba e
Pivetti, esattamente quello che anche oggi dovrebbe fare una sinistra di
classe degna di tale nome.
Chiudiamo però citando direttamente un passaggio della lettera del
1915 scritta da Lenin al segretario della “lega per la propaganda
socialista” e che tanta perplessità ha suscitato nei due autori: nella
lotta per il vero internazionalismo e contro lo “sciovinismo
socialista” nella nostra stampa citiamo sempre l’esempio dei leader
opportunisti del Partito Socialista d’America, che sono appunto a favore
delle restrizioni all’immigrazione nonostante le delibere del Congresso
di Stoccarda. Noi pensiamo che non si possa essere socialisti e allo
stesso tempo a favore di tali restrizioni. E pensiamo che i socialisti
d’America, appartenenti all’oppressiva nazione dominante, che non siano
contro ogni restrizione dell’immigrazione e per la completa libertà
delle colonie siano in realtà dei socialisti sciovinisti. Sono passati più di cento anni, ma il giudizio è ancora valido.
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