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24/01/2020

Immigrazione: il sonno dell’antimperialismo genera mostri

Il tema dell’immigrazione ha rappresentato (e rappresenterà) una delle questioni fondamentali intorno a cui si giocherà la partita della nostra internità tra i salariati e la nostra capacità di esercitare (non solo tra di essi) una qualche forma di egemonia, non fosse altro che per la funzione divisiva che tale questione ha svolto nella classe negli ultimi anni e la centralità che ha assunto nel dibattito pubblico. E il fatto di non avere uno straccio di strategia politica in merito, né una analisi condivisa delle radici del fenomeno nella sua concreta attualità certamente non ci aiuta.

Per essere più chiari, sappiamo bene che la storia dell’umanità è contrassegnata dalle continue migrazioni di esseri umani e che, anzi, queste ne sono parte costituente e imprescindibile, ma fermandoci a questa lettura, che potremmo definire quasi “etologica” dell’immigrazione, corriamo il rischio  di “naturalizzare” un fenomeno che invece è sociale, e quindi “storico”, e che dunque va analizzato e compreso nello specifico contesto in cui si determina. Stiamo parlando di milioni di esseri umani, delle loro vite e delle loro storie e non di uccelli o di balene che “migrano” da nord a sud in funzione delle stagioni o dei cicli vitali. Questo dev’essere chiaro perché altrimenti si finisce per rimuovere, pur senza volerlo, il semplice fatto (si fa per dire) che nel mondo contemporaneo i principali “push factor” dei movimenti migratori (come gli “esperti” chiamano i fattori che spingono milioni di persone a spostarsi dai luoghi in cui sono nate) sono comunque riconducibili al modo di produzione capitalistico nella sua fase imperialista e alla maniera (ineguale) con cui esso disegna i rapporti sociali tra classi, popoli e stati. Una considerazione come questa dovrebbe risultare persino banale per chi annovera il barbone di Treviri tra i suoi padri putativi, ma mai come in questo caso il condizionale è d’obbligo.

A leggere infatti alcune delle riflessioni che vanno per la maggiore in questo momento sul tema dell’immigrazione ci sembra di poter dire che la rimozione, più o meno consapevole, di quello che a questo punto potremmo chiamare “imperialist factor”, sia un tratto comune tanto alla cosiddetta “sinistra buonista” quanto a quella “cattivista” che, pur se minoritaria, sta provando a costituirsi in antitesi alla prima immaginandosi più pragmatica e realista, ma risultando, però, altrettanto astratta e inutilmente cinica.

Proviamo a spiegarci meglio trattando brevemente alcune delle posizioni che oggi risultano maggioritarie nel nostro campo e che però, pur poggiando su un lodevole e meritorio solidarismo etico di fondo, non sembrano in grado di sciogliere i nodi politici della questione né, tantomeno, di prendere di petto le innegabili contraddizioni generate dai flussi migratori, preferendo piuttosto rimuoverli e fare finta che non esistano. Parlare esclusivamente di “libertà di movimento” senza, al contempo, affrontare la questione principale che invece è quella della negazione della “libertà di restare” può andare bene per i figli colti delle élite globali che decidono di spendere dove meglio credono le loro potenzialità, le “skills” acquisite nelle università di prestigio, ma è un ragionamento che invece suona piuttosto ipocrita quando si prova ad applicarlo a chi è costretto a fuggire dalla povertà, dalla guerra o dalla assoluta assenza di prospettive. “Costretto”, si, perché quando parliamo di immigrazione in fondo è proprio di questo che stiamo parlando: di coercizione al movimento, altro che “libertà”. Che poi questo avvenga attraverso i meccanismi impersonali delle leggi del mercato globale, per effetto dei bombardamenti con cui si è soliti “esportare la democrazia”, per la tirannide di qualche satrapo messo li a difendere gli interessi della multinazionale di turno oppure a causa di qualche proxy war o dei disastri ambientali collegati allo sfruttamento irrazionale delle risorse energetiche, poco cambia. Il concetto di “libero scelta” è un principio astratto che lascia il tempo che trova di fronte alla concretezza dell’oppressione economica e sociale.

Anche perché, se ci si riduce ad osservare il fenomeno esclusivamente da questa prospettiva, si finisce paradossalmente con l’arrivare a difendere l’immigrazione in quanto “diritto universale” o “diritto umano” e non gli immigrati in quanto sfruttati, in quanto persone spinte a spostarsi proprio per la loro condizione di “umani senza diritti”. Che poi, a pensarci bene, sarebbe un po’ come difendere il sistema capitalista e la “libertà” di vendere la propria forza lavoro come merce in cambio di un salario, piuttosto che organizzare i lavoratori salariati per abbattere il sistema che li genera. Un differenza non proprio banale e che fa il paio con un altro fraintendimento piuttosto comune sempre dalle nostre parti, ovvero la convinzione assolutamente sballata che in un mondo intollerabilmente diseguale l’immigrazione rappresenti comunque una forma, seppur indiretta, di redistribuzione della ricchezza verso i meno abbienti, mentre è vero esattamente il contrario. L’immigrazione è un’ulteriore forma di saccheggio dei paesi imperialisti a danno dei paesi poveri, dai quali viene importata forza lavoro a basso costo, spesso anche qualificata e formata a spese del paese di provenienza, da sfruttare per produrre valore e profitti che poi resteranno saldamente da questa parte del muro. Non produrrà mai l’abbattimento di quella frontiera immateriale che separa il nord globale dal sud globale e nemmeno servirà a ridurre il gap tra centro e periferia, piuttosto contribuirà ad approfondirlo e a renderlo strutturale.

È davvero significativo come l’analisi di questi processi di spoliazione sia stata completamente ribaltata da quando l’Italia si è trasformata da paese esportatore a paese importatore di manodopera. E non è nemmeno un caso che alla giusta e sacrosanta indignazione e commozione per le stragi di immigrati nel Mediterraneo spesso corrisponda il disinteresse, se non il vero e proprio sostegno ideologico, nei confronti delle politiche neocoloniali e predatorie portate avanti dalle cosiddette “nazioni sviluppate”, nonché la totale indifferenza per quei milioni di persone coinvolte nei movimenti migratori sud-sud e che non hanno la “fortuna” di risvegliare la pietas dei media occidentali. Solo per restare all’esempio a noi più vicino nel tempo, basterebbe riflettere sull’ignavia della “sinistra buonista” rispetto al recente “golpe del litio” in Bolivia per rendersene conto.

Se queste sono le posizioni della sinistra umanitarista c’è però una piccola pattuglia di “sovranisti di sinistra” che prova a ritagliarsi un ruolo costituendosi in antitesi al buonismo mainstream e che proprio sull’immigrazione sta invece assumendo una postura sempre più “intransigente”, ma secondo noi altrettanto inconcludente.  Senza voler far torto a nessuno proviamo ad assumere come manifesto politico di quest’area “Il lavoro importato. Lavoro, salari e stato sociale” un libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti recentemente pubblicato per i tipi della Meltemi. Il lavoro dei due professori ha il pregio, almeno nella prima parte, di prendere il toro per le corna provando a quantificare il fenomeno e ad indicare le “contraddizioni in seno al popolo” che ne generano, senza infingimenti e senza tabù. Scrivono i due autori nel primo capitolo: l’imponente fenomeno migratorio che ha interessato Francia, Germania, Italia e Regno Unito negli ultimi tre decenni ha portato, dal 1990 al 2018, la schiera dei nati all’estero che risiedono in questi quattro paesi da 16,9 milioni a 37,6 milioni, un numero pari alla popolazione complessiva di Paesi Bassi, Belgio e Svezia.

Sempre stando ai dati forniti dalle Nazioni Unite e dall’Eurostat l’incremento maggiore in termini assoluti si è registrato in Germania (7,8 milioni), mentre l’incremento relativo più elevato è invece avvenuto in Italia in cui la percentuale di immigrati residenti in trent’anni si è più che quadruplicata, passando dal 2,5% al 10,2%. Come ricordano gli autori occorre inoltre tener conto del fatto che la distribuzione degli immigrati sul territorio non è affatto omogenea, ma si concentra, ovviamente, nelle aree economicamente più sviluppate e nelle periferie urbane. Così come bisogna aver presente la differenza che esiste tra i “flussi lordi” e quelli “netti” come misura della velocità con cui muta la composizione della popolazione immigrata. Barba e Pivetti ci raccontano pure di come, sempre nei quattro paesi presi in considerazione, se si tiene conto solamente della forza-lavoro compresa tra i 20 e i 64 anni di età (118,5 milioni), la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione attiva sale al 16,2% (19,2 milioni). Restringendo il campo di osservazione all’Italia dal 2005 al 2018 il numero degli occupati è passato da 21,8 a 22,5 milioni, con un incremento di 700mila unità, sempre nello stesso periodo, però i lavoratori occupati nati in Italia sono diminuiti di 800mila unità, mentre quelli nati all’estero sono aumentati di 1,5 milioni portando complessivamente a 3,2 milioni i lavoratori immigrati occupati presenti nel nostro Paese e occupati in larga parte nel settore delle costruzioni, dell’industria, dei servizi sanitari e alla persona e in quelli a bassa specializzazione. In termini assoluti, con 675 mila occupati, il settore dei servizi collettivi e personali è quello che registra la maggiore presenza di lavoratori stranieri, seguito dai circa 400mila operai impiegati nel settore dell’industria in senso stretto, mentre in termini relativi la percentuale maggiore di lavoratori immigrati si riscontra nel settore alberghiero e in quello della ristorazione.

Basterebbero forse questi dati, unitamente a quelli degli inoccupati e dei disoccupati, per infrangere il primo e più grande dei tabù che ci si è autoimposti a sinistra sulla questione immigrazione, ovvero il fatto che tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri non ci sia un oggettiva “concorrenza” e che la disponibilità a “fare di più per meno” da parte di questi ultimi (soprattutto se in condizione di irregolarità imposta) non contribuisca a tenere bassi i salari. Ovviamente se si è professionisti, docenti universitari o impiegati in qualche start up digitale questa concorrenza non la si percepisce, anzi al più il proprio reddito può risultare perfino accresciuto dal fatto che il costo di alcuni servizi alla persona è livellato verso il basso (badanti, collaboratori domestici, ecc.), ma negare questo dato di fatto significa semplicemente non essere mai entrati in un cantiere, in una cucina di un ristorante o in un magazzino della logistica. Rimuovere una contraddizione, per quanto spinosa, semplicemente eliminandola dal proprio campo visivo mettendo la testa sotto la sabbia non significa risolverla e nemmeno mettersi in condizione di affrontarla, col risultato che la nostra credibilità nei confronti di chi invece con questa contraddizione ci fa i conti ogni santo giorno è caduta ai minimi storici.

Gli aspetti positivi del libro di Barba e Pivetti però si esauriscono qui, perché appena si passa dalla parte analitica a quella della proposta politica ci si imbatte in una sequenza di enunciazioni dal carattere assolutamente regressivo secondo noi irricevibili. Facciamo però parlare i due autori che, dopo aver constatato l’inservibilità dell’Unione Europea allo scopo scrivono: Una politica di contrasto severo dell’immigrazione dovrebbe muoversi lungo quattro linee principali: la prima riguarda la regolamentazione dei nuovi ingressi; la seconda l’eliminazione dell’immigrazione irregolare già presente sul territorio nazionale; la terza il contrasto dei nuovi accessi illegali, ossia la questione della difesa dei confini nazionali e in special modo quelli marittimi; infine la quarta riguarda la politica estera dello Stato Italiano. Dopo aver passato in rassegna una serie di misure presentate come “concrete”, tra cui citiamo: la restrizione delle condizioni necessarie al rilascio di permessi di ingresso per motivi umanitari; l’inasprimento dei parametri necessari al rinnovo del permesso di soggiorno; la regolamentazione più severa delle norme sul ricongiungimento familiare attraverso vincoli reddituali e vincoli relativi al grado e all’età della parentela; la velocizzazione dei provvedimenti di espulsione che diano allo stesso sempre esecuzione forzata; l’adozione, come nel Regno Unito, del principio “prima l’espulsione e poi l’appello” per ovviare ai ricorsi contro i provvedimenti di espulsione; garantire (visti i costi complessivi insostenibili, ndr) un numero annuo consistente e sistematico di rimpatri da utilizzare come fattore di deterrenza; aumentare i respingimenti alla frontiera, i due autori affermano: rispetto a un controllo dei flussi migratori così inteso, la principale difficoltà non è costituita dalla mancanza degli strumenti per attuarlo, né dall’assenza di un vasto consenso popolare intorno all’opportunità di un loro impiego. È piuttosto costituita dagli interessi delle imprese e dal fatto che nel dibattito politico e pubblico la questione dei flussi migratori e trattata in termini di pulsioni razziste e xenofobe.

Insomma par di capire che per Barba e Pivetti, se davvero volessero attuare queste politiche di contrasto all’immigrazione, i lavoratori (italiani, ça va sans dire) sotto la guida dei sovranisti di sinistra dovrebbero, come prima cosa, “impadronirsi” dello Stato a dispetto dei (falsi) sovranisti alla Salvini che predicano bene, ma razzolano male. Allora ci chiediamo: ma una volta prese in mano le leve della cosa pubblica, perché mai i lavoratori dovrebbero accanirsi contro i più deboli e non prendersela direttamente con chi concentra in pochissime mani quasi tutta la ricchezza nazionale? A sentir parlare di immigrazione esclusivamente in questi termini, sembrerebbe quasi di trovarsi in una situazione di scarsità oggettiva di beni e di risorse, e che dunque diminuendo il numero degli individui tra cui dividere la torta, le fette sarebbero più grandi (per la serie mors tua vita mea). Ma sappiamo bene che non è così. Per quanto possa essere controintuitivo in tempi di crisi economica, non ci troviamo in un’epoca di scarsità ma siamo, piuttosto, in un’epoca di abbondanza. La crisi in cui il sistema capitalistico si dibatte è una crisi di sovrapproduzione di beni e capitali, e se non tutti riescono a godere della ricchezza sociale, o per essere un po’ più precisi, se la stragrande maggioranza del pianeta non riesce a godere delle immense possibilità di cui disponiamo, è perché le leggi interne che regolano questo modo di produzione non lo permettono.

C’è infine un ultimo aspetto del testo (in cui, probabilmente non a caso, l’imperialismo non viene mai menzionato) su cui vale la pena soffermarsi perché estremamente significativo rispetto all’operazione culturale che lo sottende. Per assumere una postura del genere, che oggettivamente rompe non solo con l’umanitarismo lacrimevole di certa sinistra ma con il concetto stesso di solidarietà internazionale di classe, i due sono stati infatti “costretti” a sottoporre a una critica feroce tanto la tradizione culturale marxista quanto quello che viene indicato come il suo “peccato originale”: l’internazionalismo proletario. E l’hanno fatto dedicando un intero quanto raffazzonato capitolo all’analisi di tre scritti di Lenin sull’immigrazione in cui, a detta degli autori, si dimostrerebbe come il rivoluzionario russo considerasse l’anticolonialismo e l’apertura dei confini alla circolazione dei lavoratori come due lati di una stessa medaglia. A Lenin i due sembrerebbero inoltre “imputare” (ma qui speriamo di aver compreso male il passaggio del loro testo) il fatto di essersi opposto nel corso del Congresso Socialista Internazionale di Stoccarda del 1907 alle tesi che sostenevano la necessità di una “politica coloniale socialista” e di aver “imposto” invece l’adozione di alcune alcune linee guida rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti dei lavoratori immigrati. Nei paesi di immigrazione - si lamentano i due – bisognava battersi  per “l’abolizione di tutte le limitazioni che escludono o rendono difficile l’accesso a determinate nazionalità o razze ai diritti sociali, economici e politici dei nativi e alla naturalizzazione” per “la protezione del lavoro attraverso la riduzione della giornata lavorativa, stabilendo un salario minimo, l’abolizione della retribuzione a cottimo, la regolamentazione del lavoro a domicilio, una rigorosa supervisione delle condizione igieniche e degli alloggi”; per “l’accesso senza alcuna restrizione degli emigranti ai sindacati di tutti i paesi” e “l’istituzione di cartelli sindacali internazionali”. In quelli di emigrazione, invece, per “la propaganda sindacale attiva”; per “fornire pubblicamente informazioni circa la situazione reale delle condizioni di lavoro nei paesi di immigrazione”; “per gli accordi tra sindacati dei paesi di emigrazione e dei paesi d’immigrazione” e “la vigilanza delle agenzie marittime e degli uffici d’immigrazione ed eventualmente misure legali ed amministrative a loro carico, onde impedire che l’emigrazione venga organizzata nell’interesse delle imprese capitalistiche. Insomma, checché ne dicano Barba e Pivetti, esattamente quello che anche oggi dovrebbe fare una sinistra di classe degna di tale nome.

Chiudiamo però citando direttamente un passaggio della lettera del 1915 scritta da Lenin al segretario della “lega per la propaganda socialista” e che tanta perplessità ha suscitato nei due autori: nella lotta per il vero internazionalismo e contro lo “sciovinismo socialista” nella nostra stampa citiamo sempre l’esempio dei leader opportunisti del Partito Socialista d’America, che sono appunto a favore delle restrizioni all’immigrazione nonostante le delibere del Congresso di Stoccarda. Noi pensiamo che non si possa essere socialisti e allo stesso tempo a favore di tali restrizioni. E pensiamo che i socialisti d’America, appartenenti all’oppressiva nazione dominante, che non siano contro ogni restrizione dell’immigrazione e per la completa libertà delle colonie siano in realtà dei socialisti sciovinisti. Sono passati più di cento anni, ma il giudizio è ancora valido.

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