Luigi Di Maio annuncia le sue formali dimissioni da capo politico dei 5 stelle e, dice lui stesso, “è la fine di un’epoca”.
Al di là dell’auto-sopravvalutazione individuale, sempre presente in questi casi, la sua rinuncia alla guida solitaria di ciò che resta del Movimento Cinque Stelle certifica una crisi che si trascinava dal momento stesso in cui il “capo politico” – definizione resa obbligatoria dalla legge elettorale in vigore, parto delle “menti sottili” di Renzi e Rosato – aveva deciso di fare un governo insieme alla Lega, nel giugno 2018. Data da allora, infatti, la corsa verso il baratro nei sondaggi e soprattutto nei risultati elettorali.
Visto che non ci interessano più di tanto i gossip politici (“si dimette, ma per tornare”, “ora si va alla leadership collettiva”, “Di Battista si scalda in panchina” e via dicendo), preferiamo concentrare l’attenzione sulla fine di una stagione e di una cultura politica che ha avuto un forte successo pur essendo palesemente inconsistente.
È questo il piano su cui, ci sembra, si può provare a capire quali strade seguire in futuro per costruire effettivamente un’alternativa politica al tempo stesso radicale ed efficace.
Malessere sociale e rappresentanza politica
Da quasi 30 anni – da quando si è introdotta la “logica del maggioritario” nelle leggi elettorali, in curiosa coincidenza con l’entrata in vigore dei trattati di Maastricht e dei “vincoli” lì indicati – il malessere sociale è andato crescendo. Non per ragioni politico-elettorali, ma per il ben più evidente impoverimento progressivo dei lavoratori dipendenti (e anche di quelli autonomi “di fascia bassa”), causato da politiche economiche e di mercato del lavoro sempre più a favore delle imprese: precarietà contrattuale (“pacchetto Treu” e “legge 30”), salari da fame per i “lavoretti precari” diventati regola legale, blocco degli aumenti salariali, blocco del turnover nella pubblica amministrazione (e introduzione del precariato anche lì), esternalizzazioni e delocalizzazioni, svendita del patrimonio industriale e immobiliare pubblico, aumento della disoccupazione e dei workin poor, aumento esponenziale dell’età pensionabile e regole più micragnose per il calcolo dell’assegno...
Si potrebbe andare avanti all’infinito, fino alla legge Fornero e al Jobs Act (abolizione dell’art. 18), ma l’andazzo è fin troppo noto per ricordarlo tutto. L’intreccio inestricabile tra peggioramento delle condizioni di vita e disinteresse per queste della “politica” ha alimentato il sacrosanto odio popolare per “i privilegiati”. Che poi questi siano stati ridotti ai soli “politici” è un capolavoro di depistaggio messo in campo dai media mainstream (dove è vietato invece criticare le aziende e chi le dirige-possiede...), a partire dal fortunato libretto “La casta“. Del resto, questa classe politica è fatta di servi di bassa lega, dunque è perfino giusto che vengano sacrificati dal Potere vero per allontanare da sé l’odio popolare.
Questo malessere, nel mondo politico bipolare disegnato dalle leggi elettorali maggioritarie, non ha a lungo trovato una rappresentanza politica reale. I cosiddetti centrodestra e centrosinistra si sono alternati per oltre venti anni senza che nessun bisogno emergente da quel malessere potesse trovare ascolto.
Anzi...
Due schieramenti perfettamente uguali sul piano della “decisione politica” – anche al di là della volontà dei singoli, anche quando nella maggioranza c’era perfino Rifondazione Comunista o, sul fronte opposto, gli eredi diretti del Movimento Sociale (Fini, Meloni, Storace, Gasparri, ecc.) – perché entrambi felicemente prigionieri dei vincoli e delle “prescrizioni” elaborate a Bruxelles e Francoforte. Resta un po’ di spazio solo per i dettagli, le bandierine e pezzetti sempre più piccoli di clientela. E su quelli la concorrenza è ferocissima.
Quando si è presentata, dietro il vettore mediatico e comunicativo di Beppe Grillo, un’“alternativa” che faceva propria, in modo piacione e confusissimo, l’esigenza di mandare a casa l’establishment (“vaffa” alla “Kasta”), improvvisamente si è rotta la gabbia bipolare e quella rappresentanza politica, per quanto vaga, è arrivata in breve tempo a raccogliere un terzo dei consensi elettorali.
Le poche cose che sembravano chiare non lo erano ovviamente affatto: “un movimento né di destra né di sinistra”, “onestà e legalità”, “uno vale uno”, “democrazia diretta fondata sulla Rete”, “nessun leader e nessun capo”, ecc.
Tutti slogan, in senso stretto, che ognuno poteva riempire con la propria immaginazione, senza che corrispondessero ad alcunché di somigliante a un programma politico nero su bianco. Ossia a un disegno chiaro, possibilmente organico, di modello sociale che fosse corrispondente ai bisogni reali della popolazione e anche realizzabile nei tempi brevi di una stagione di governo.
La prova del governo
Già le faticose esperienze dei primi sindaci eletti dai Cinque Stelle (Pizzarotti a Parma, per esempio) facevano vedere che tra quegli slogan e la realtà, tra il dire e il fare, c’era qualche oceano di mezzo. Ma le loro difficoltà potevano facilmente esse scusate con gli ostacoli frapposti dai governi centrali (che controllano comunque le erogazioni finanziarie) o dalle competenze regionali “concorrenti”; oppure con il “tradimento” del singolo eletto nei confronti del mandato ricevuto.
È stato solo quando il M5S è arrivato al governo nazionale che l’inconsistenza della sua “cultura politica” si è sfracellata contro la durezza dei fatti.
Accettare di fare un governo con la Lega, popolata di vecchi marpioni del sottobosco politico-affaristico e teatralizzata da un attore di serie B, ma straordinariamente “montato” dal sistema mediatico (oltre che, ironia della Storia, proprio dalle potenzialità manipolatorie della Rete), si è rivelato fin da subito un suicidio. Politico e “ideale”.
Il successivo salto di maggioranza, dalla Lega al Pd, sebbene obbligato proprio dall’ex alleato folgorato dai mojito al Papeete, ha finito di demolire quel che restava della credibilità di un impianto “teorico”: se puoi stare al governo con chiunque, non hai alcuna vera “alternativa” da portare avanti. Sei un democristiano di centro, che te ne renda conto o no.
Le esigenze della “tattica politica”, altrimenti dette del “realismo” (il discorso di dimissioni di Di Maio ne è stato pieno), prendono il sopravvento e cancellano ben presto quasi tutto l’immaginario che aveva sostenuto l’ascesa del movimento. Le poche “vittorie” sono bandierine lacere che interessano ben poco il grande pubblico: “l’abolizione dei vitalizi” è a forte rischio di incostituzionalità, “l’abolizione della prescrizione” idem, “il taglio dei parlamentari” fa diminuire la rappresentatività del Parlamento senza ridurre granché “i costi della politica” (si sarebbe risparmiato molto di più dimezzando, o più, gli stipendi dei parlamentari, senza toccare la Costituzione).
Persino il simbolo glorioso del “reddito di cittadinanza a 780 euro” è sbiadito in un assegno medio di meno di 500 per un platea ridotta e identificata con criteri discutibilissimi e praticamente inefficaci.
Lo spettro della “legalità”
Lo slogan “onestà, onestà” era stato la colonna sonora dell’ascesa dei Cinque Stelle. Al di là della difficoltà, incontrata da molti neoletti in quelle liste, a far corrispondere vizi privati e pubblica virtù, c’è una voragine culturale abissale sotto quello slogan. È l’idea – mai pienamente esplicitata – che questo sistema in cui viviamo funzionerebbe benissimo se tutti fossero “onesti” e “rispettassero la legge”.
Ma se tutti “rispettano la legge” non cambia mai nulla, nel sistema in cui viviamo. Se la Storia fosse andata avanti con popolazioni che “rispettavano le leggi” staremmo ancora a pitturare la volta delle caverne con le dita sporche... Anche nelle tribù primitive, infatti, c’era una “legge”. Era la volontà del capobranco, ma era una “legge”; pericolosissimo non rispettarla...
“Rispettando la legge” non ci sarebbe stata la Rivoluzione Francese, né quella inglese o americana (non parliamo poi di quella russa o sovietica o cubana, ecc).
Peggio: gli aguzzini sterminatori dei lager nazisti erano a loro modo dei perfetti “rispettosi della legge”. “Abbiamo obbedito agli ordini”, si sono difesi prima di finire giustamente davanti al plotone di esecuzione.
La legge è infatti “la regola che c’è” in un determinato momento, in un certo luogo o Paese. È la cristallizzazione in “regole valide per tutti” di un rapporto di forza. E cambia solo se cambiano i rapporti di forza, e nel senso (la direzione storica, l’orientamento ideale, ecc.) deciso dai rapporti di forza. La legge, insomma, cambia solo se viene ad un certo punto violata.
La giustizia è un’altra cosa, come si sa. E infatti il mondo cambia e va avanti non rispettando le leggi ingiuste. Chi obbedisce loro senza farsi domande sulla loro corrispondenza a una più alta idea di “giustizia” è un conservatore, non un “uomo del cambiamento”.
Lo si è visto con i Cinque Stelle in due governi che dovevano essere diversi, ma sono stati eguali nella sostanza (neanche i “decreti sicurezza” di Salvini sono stati minimamente toccati!).
Democrazia diretta, uno vale uno, la centralità della rete
Qui forse si è verificato il più grande scarto tra premesse, promesse e realtà. Per un “errore di programmazione” che è appunto la voragine sotto i piedi di una cultura politica inventata, fuori dalla Storia.
Si diceva: “‘uno vale uno’, nessuno è il capo nessuno è il leader. Nessuna organizzazione piramidale, nessuna governance nè, tantomeno, l’organizzazione simile a quelle dei partiti tradizionali. La democrazia diretta, è il motto, vince su tutto. La rete ha sempre l’ultima parola.”
Un’idea irrealizzabile nella pratica. Affascinante, in astratto, ma irrealizzabile. Perlomeno all’alba del terzo Millennio, in pieno regime capitalistico, sebbene nella sua più lunga crisi da quando esiste.
In questo mondo la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. Che significa? La politica è lotta, conflitto continuo anche se senza armi (e neanche sempre...). Ogni mossa comporta una contromossa degli avversari, e viceversa. Le decisioni, piccole o grandi che siano, vanno prese in tempo reale. Altrimenti, come in un match di pugilato, prendi un pugno in piena faccia mentre stai lì a chiedere consiglio ai tuoi amici a bordo ring...
È quindi inevitabile, necessario, in definitiva giusto – in questo mondo – che una forza politica abbia un comando centrale, che possieda la capacità di concentrare l’informazione, la conoscenza collettiva, studi e capisca gli avversari, e possa dunque prendere decisioni giuste ed efficaci in tempo utile.
E la democrazia interna? La democrazia è un metodo. Serve a selezionare i delegati che dovranno rispettare un mandato di medio periodo (qualche mese, qualche anno). Serve a decidere quale mandato conferire (quale “linea politica” vincola il rapporto tra deleganti e delegati), a revocare il mandato in caso di incapacità o non volontà di rispettarlo.
I Cinque Stelle non potevano semplicemente fare quel che promettevano. Ma invece di prendere atto, e ufficializzare questo indispensabile “cambio di prospettiva culturale”, il gotha pentastellato ha per anni tenuto in vita “l’ideologia” facendo nella pratica l’opposto. Di qui i “malumori” sempre crescenti, con le motivazioni più diverse (in politica, sono sempre in tanti quelli che aspirano ai vertici e ne criticano i passaggi). Peraltro giustificati da una concentrazione di poteri senza precedenti neanche negli odiati “partiti” (capo politico, vicepremier, ministro degli esteri – prima del lavoro ed anche dello sviluppo – tesoriere, capodelegazione al governo, ecc.), in aperta contraddizione con “l’ideale”.
Stessa sorta per la “democrazia in Rete”. Sembra sempre l’uovo di Colombo: “confrontiamoci tutti e vediamo cosa ne esce fuori”. In genere non ne esce nulla. Un po’ perché, nella vita reale, le persone lavorano, amano, fanno decine di cose indispensabili e ben pochi hanno la possibilità (o la sfortuna) di stare ore al giorno davanti al pc, a scorrere migliaia di “opinioni” diverse in merito allo stesso argomento. Un po’ perché il meccanismo di determinazione della decisione, se preso alla lettera, seleziona la “decisione meno divisiva” tra i dialoganti; e non è affatto detto che sia anche quella più efficace (e comunque arriverebbe fuori tempo utile...).
Ma soprattutto perché il conflitto politico reale ammette solo un certo numero di soluzioni possibili, non qualsiasi corbelleria possa venire in mente. Il conflitto politico agisce insomma come un rasoio di Occam. Non c’è spazio per le parole in libertà (Mao diceva: “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola“).
Anche in questo caso, la pratica effettiva della “piattaforma Rousseau” è stata un molto più prosaico sottoporre domande su cui chiedere il voto degli iscritti. Ma non serve un genio dell’informatica – o della democrazia – per capire che il manico sta in mano di chi formula le domande e, soprattutto, di chi controlla la “piattaforma”.
In definitiva, ne esce a pezzi anche l’ideologia dell’”uno vale uno”.
Sia chiaro: ognuno di noi “pesa” quanto qualsiasi altro, sia al momento del voto, sia nel diritto ad esigere pienamente i diritti (sia civili che sociali). Ma nessuno/a di noi è fortunatamente uguale a un altro/a per quanto riguarda capacità, cognizione di causa, competenze, interessi, dirittura morale, disponibilità, spirito militante, ecc.
Ne consegue che, nella formulazione di proposte politiche, ci sia una grande variabilità di valore o efficacia tra le infinite idee individuali possibili. Come da sempre accade, nel dibattito interno a una determinata comunità umana, “l’opinione collettiva” si forma cercando di selezionare le migliori dal punto di vista collettivo. Ossia quelle che funzionano. Su ogni decisione, in democrazia, si forma una maggioranza e una o più minoranze; ma ogni decisione, in democrazia, diventa vincolante per tutti i membri di una determinata comunità. Altrimenti la “discussione” impedisce qualsiasi decisione e fa perdere la battaglia.
Invece di negare questa basilare differenza tra capacità anche individuali, per creare una democrazia effettiva, sarebbe meglio concentrarsi su metodi e regole per evitare che gli opinion maker emergenti, ma temporanei, all’interno della comunità diventino “padroni” eterni dei destini della comunità stessa.
Abbandonando nella discarica delle idee balzane l’immagine di una “comunità umana piatta”, senza spessore, dunque senza poeti, musicisti, scienziati, campioni sportivi, ecc. E persino statisti.
Sembra paradossale che siano dei comunisti a dover ricordare la banalità della differenza reale tra gli esseri umani che comunque – e giustamente – pretendono l’uguaglianza nel poter vivere una vita degna di questo nome.
Ma, se ci pensate un attimo, vedete che la finzione dell’uguaglianza tra gli umani è proprio ciò che domina nel capitalismo. Il “consumatore” (quanto a informazione sulla natura della merce, il modo in cui è stata prodotta, gli elementi che la compongono, ecc.) viene fintamente supposto come “pari” al produttore, che ha invece tutte le informazioni e dunque il potere di imporre uno scambio truffaldino. Il lavoratore è dipinto – solo dipinto – come perfettamente consapevole di tutte le conseguenze del “contratto” che lo vincola a un padrone (pardon: a un “imprenditore”), che gli può così assegnare un salario da fame. Il “cittadino elettore”, per chiudere il cerchio, è dipinto nel momento del voto come “perfettamente” alla pari con il politico di professione, che può così rispondere agli ordini di chi ha il potere economico facendo finta di “servire il popolo”.
In definitiva, insomma: si possono superare le differenze che vengono ammesse e riconosciute, non quelle che vengono negate e nascoste. Che infatti riemergono sempre.
Né di destra, né di sinistra
È forse l’elemento più assurdo e ambiguo della “cultura grillina”, ma è stato il passepartout che hanno usato poi tutti i partiti che hanno provato a cavalcare il malessere sociale. “Facciamo quel che serve ai cittadini” (o “agli italiani”), è la frase più ripetuta negli assolo dei parlamentari davanti al condiscendente microfono Rai o Mediaset... Come se una legge, un decreto, una misura qualsiasi potessero davvero avere lo stesso effetto su qualsiasi tipologia sociale.
Ma se metti la flat tax al 15%, regali un’elemosina a chi guadagna poco e milioni a chi è già ricco. Se vieti le manifestazioni fai un favore agli imprenditori, e imbavagli i lavoratori (già ci pensano CgilCislUil, per maggiore sicurezza...). Eccetera.
È però verissimo che quella che oggi si autoproclama “sinistra” (il ventaglio di forze che va da Renzi a Leu, e spesso anche oltre) non ha nulla a che fare con cultura e valori storici del movimento operaio, a partire dalla difesa sul mercato del lavoro fino all’accoglienza dei migranti.
E quindi quel mantra grillino (ma comune a tutti i gruppi neofascisti che cercano di non farsi subito riconoscere come tali, restando così lasciati ai margini del gioco politico) ha avuto successo proprio perché questo “centrosinistra” è materialmente indistinguibile (citofoni a parte...) dal “centrodestra”.
Tant’è vero che i Cinque Stelle hanno fattivamente governato con entrambi.
Fino a chiudere un’era... La propria.
È tempo di aprirne un’altra, senza portarsi dietro nulla di quella subcultura politica.
Fonte
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