Al di là della cronaca, l’analisi di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, stavolta centra il punto di crisi vera cui è giunto il modo di produzione capitalistico nel suo complesso – l’eccesso di capacità produttiva installata, che marxianamente inquadriamo come un aspetto della crisi di sovrapproduzione – e le due diverse ipotesi di “soluzione” che dividono il campo capitalista.
L’America di Trump ha scelto sicuramente una strada retrograda, che facilita una gestione ideologica reazionaria sul piano politico e culturale. Il resto del “mondo che conta” invece punta sul green deal per uscire dalla stessa impasse.
Entrambe le soluzioni, conviene dirlo subito chiaramente, presuppongono che non ci sia alternativa al capitalismo più brutale, al neoliberismo più sfrenato. Entrambe le soluzioni, insomma, prevedono morte e distruzione, profitti inimmaginabili e povertà sempre più diffusa. E una crisi ambientale inarrestabile.
La differenza sta fondamentalmente nel fregarsene della crisi ambientale oppure usarla come occasione di ulteriore business. Il che comporta un corollario politicamente importante: difendere soprattutto gli interessi e la struttura produttiva degli Stati Uniti (America first) oppure provare a disegnare una “globalizzazione di riserva”, con tanta vernice verde a nascondere sangue e povertà.
Non c’è un “meno peggio” da accettare obtorto collo. Non c’è alcun “progressismo capitalistico” proprio perché non c’è una via d’uscita capitalistica che permetta di salvare capra e cavoli, ossia: ritorno alla crescita per tutti i singoli capitali esistenti, organizzati su base nazionale o multinazionale (“si comprano le aziende marginali solo per chiuderne gli impianti, come è evidente nel caso della siderurgia“, vedi l’Ilva). Peggio ancora: “Dopo il passaggio dall’agricoltura all’industria, e da questa ai servizi, ora c’è solo la prospettiva di un aumento della disoccupazione tecnologica“).
La “soluzione Trump” prevede infatti la distruzione di capitali altrui e contemporaneamente anche di ciò che resta degli equilibri ambientali. E anche la “soluzione Davos” prevede la stessa cosa, ma con una diversa – opposta – lista di capitali da sacrificare e obbiettivi ambientali da sbandierare (solo per la retorica, visto che nessuna impresa cambierà il suo modo di produrre in tempi utili per arrestare la corsa verso lo choc termico planetario).
Può stupire gli ingenui l’esplicita ironia con cui un analista economico inquadra anche Greta Turnberg tra le foglie di fico inventate per imbellettare il neoliberismo green. Ma basterebbe constatare la scomparsa dai media del movimento Friday for Future, non appena le sue assemblee – come quella nazionale a Napoli dello scorso ottobre – hanno cominciato a legare più esplicitamente crisi ambientale e capitalismo, nonché a schierarsi con le resistenze territoriali più odiate dall’establishment (“Sosteniamo ogni battaglia territoriale portata avanti dai tanti comitati locali, come No-TAV per Val di Susa, No-Grandi navi per Venezia, no Muos per Catania e Siracusa, no TAP per Lecce e Stopbiocidio per Napoli e la terra dei fuochi, Bagnoli Libera contro il commissariamento, la lotta all’Enel per Civitavecchia, la Snam per l’Abruzzo, il Terzo Valico per Alessandria. Rifiutiamo ogni speculazione sullo smaltimento dei rifiuti, sul consumo del suolo e quelle infrastrutture che causano dissesto idrogeologico. Pretendiamo che l’unica grande opera da portare avanti sia la bonifica e la messa in sicurezza dei territori”).
Al loro posto, negli stessi giorni, sono state “scoperte” le Sardine, sicuramente più disponibili a far finta di nulla su certe cose...
Ma queste sono le piccole cose di casa nostra, irrilevanti rispetto al futuro del pianeta e quindi dell’umanità.
L’anarchia mercantilista del capitalismo multinazionale è arrivata al suo limite fisico, perché l’ambiente naturale non è agli ordini delle esigenze del profitto e non lo si può “costringere” coattivamente né cancellarlo. Nell’ambiente ci stiamo dentro, non si può guardarlo da fuori e trattarlo come un oggetto disponibile a qualsiasi trattamento. L’esigenza di una pianificazione centralizzata – che sarebbe l’unica idea accettata per la soluzione di qualsiasi problema diverso dall’economia capitalistica – si fa strada addirittura in modo “perverso”, come l’accordo commerciale Usa-Cina che prescrive dettagliatamente quali produzioni e quali consumi dovranno essere implementati tra i due paesi che insieme fanno quasi la metà del Pil mondiale.
E, come giustamente viene subito notato, “in un sistema a somma zero, se la Cina comprerà più prodotti americani, dovrà ridurre l’import dagli altri Paesi”.
La guerra commerciale globale è appena agli inizi. Discettare di “politica” senza aver presente il quadro è una perdita di tempo.
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A Davos, tutti contro Donald Trump
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
Tutti contro Donald Trump, a Davos. Lo hanno messo in mezzo, come in un panino televisivo ben confezionato, in cui la tecnica persuasiva contempla di dar subito conto delle opinioni di chi governa, per poi offrire un piccolo spazio all’opposizione e concludere riportando le opinioni della maggioranza.
Trump parlerà infatti solo in seconda giornata, martedì 21, a metà mattinata, dopo la grancassa sui rischi ambientali. Da solo, in una sessione dal titolo quanto mai anodino e per questo emblematico: “Miscellaneous”, lo spazio del dibattito che negli ordini del giorno viene rubricato come “Varie ed eventuali”.
Sembra quasi che la vera opposizione al Presidente americano non la facciano i Democratici a Washington, promuovendone l’impeachment, ma l’intero mondo che anche quest’anno si raccoglie al World Economici Forum.
D’altra parte, che Trump sia isolato, e non solo sulla questione del clima, è di tutta evidenza: non solo ha ritirato gli Usa dall’Accordo di Parigi, ma ha lanciato una sfida nei confronti della Cina che va molto al di là dei dazi commerciali. È in gioco, secondo il Presidente americano, il predominio globale dell’America. Il suo intervento, preceduto dalla sessione intitolata “Come salvare il Pianeta liberamente trasformabile”, verrà seguito da un dibattito su un altro tema che prosegue il controcanto: “Oltre la geopolitica”.
Il collante della nuova globalizzazione è duplice: non solo i rischi ambientali sono indivisibili, ma occorre superare i conflitti sempre più aspri tra le nazioni ed i blocchi. Tutto il contrario della estensione della Nato, che Trump ha appena auspicato per includervi i Paesi del Medio Oriente, ed alla prospettiva di farvi aderire da subito l’Australia in funzione anti-Cina.
Anche il soffitto di cristallo del maschilismo viene sfondato: nella home page del Meeting 2020, nelle foto degli ospiti di livello mondiale compare per prima Greta Thunberg, definita Climate and Environmental Activist; solo dopo, appaiato alla giovane svedese, compare Donald Trump, l’unico uomo in partita.
Occorre andare a fondo su questa contrapposizione di strategie che emerge a Davos.
Trump ha tre obiettivi principali: riequilibrare le relazioni commerciali verso l’estero iniziando con la Cina, chiedendo di aumentare le importazioni di merci e servizi statunitensi; riportare a casa una serie di produzioni di alta tecnologia fin qui delegate a Paesi terzi; considerare la sfida portata dalla Cina alla supremazia americana come una priorità assoluta, sul piano della contrapposizione geopolitica.
È importante, a questo punto, analizzare il mix di maggiori importazioni cinesi dagli Stati Uniti, su cui si fonda l’accordo appena raggiunto nella Fase 1 della trattativa. È un piano dirigista, che non lascia nessuno spazio alle dinamiche del mercato: la Cina si è impegnata ad acquistare ulteriori beni e servizi americani per 200 miliardi di dollari entro la fine del 2021, di cui 77 miliardi già nel 2020. Conseguentemente, l’export americano verso la Cina dovrebbe arrivare a 263 miliardi entro la fine di quest’anno ed a 309 miliardi nel 2021.
Il maggiore import cinese è predeterminato per settori merceologici: per i prodotti manifatturieri si tratta di +32,9 miliardi nel 2020 e +44,8 nel 2021; per i prodotti agricoli sono +12,5 miliardi nel 2020 e +19,5 nel 2021; per gli energetici +18,5 miliardi nel 2020 e +33,9 nel 2021; per i servizi appena +12,8 miliardi nel 2020 e +25,1 nel 2021.
A farne le spese sarà il resto del mondo: in un sistema a somma zero, se la Cina comprerà più prodotti americani, dovrà ridurre l’import dagli altri Paesi. È una pianificazione dirigista, inaccettabile per il mondo che si riunisce a Davos.
La strategia di Trump rifugge inoltre dalle prospettive di crescita fondata su nuovi paradigmi produttivi: punta sul riequilibrio delle produzioni tradizionali, con un rapporto tra merci e servizi che vale 3 ad 1. Per crescere, l’economia americana deve tornare all’agricoltura ed all’industria, e non insistere sui servizi. Non c’è niente di innovativo, a differenza di Ronald Reagan che già professava le virtù della New Economy basata su Internet.
Meno ancora ci si fida delle bardature regolamentari, come quelle ambientali dei Clean Air Act californiani. Le preoccupazioni climatiche, i rischi che derivano da un aumento della temperatura del Pianeta, la decarbonizzazione della produzione e la prospettiva di azzerare l’incremento delle emissioni di CO2 sono completamente assenti dall’agenda di Trump, mentre sono il fulcro di quella di Davos 2020.
Trump si propone di ridurre gli squilibri commerciali americani mantenendo invariate le politiche industriali e quelle finanziarie, intrattenendo relazione politiche bilaterali con i partner in attivo strutturale, per spostare i luoghi della produzione verso gli Usa e chiudere così la forbice con i consumi.
Di segno completamente opposto è la strategia che viene sposata a Davos, che si fonda sui rischi sistemici derivanti dai cambiamenti climatici e sulla insostenibilità ambientale delle produzioni in atto. Si propone un cambio di paradigma, che è allo stesso tempo produttivo e finanziario, analogo a quello cui si assistette dal lancio di Internet, con la creazione del Nasdaq e con la valutazione finanziaria delle imprese del tutto svincolata dalle performance economiche attuali.
Già oggi, la capitalizzazione di Borsa di Tesla arriva a ben 85,8 miliardi di dollari, quando la somma di quelle di Ford e GM è di 87 miliardi. Il mercato sconta per Tesla una crescita ed una redditività futura impareggiabile, nonostante abbia venduto lo scorso anno meno di 400 mila vetture, quando GM ne ha vendute 2,9 milioni solo negli Usa e la Ford ben 123 mila in Italia.
I green bond costituiscono parimenti un nuovo segmento del mercato finanziario, che si muove in autonomia ed a cui gli operatori dedicano particolare attenzione. Anche le banche centrali saranno coinvolte: i prossimi Qe, chissà, avranno come oggetto l’acquisto di titoli ricompresi in questa categoria, nonostante le preoccupazioni per l’annacquamento delle caratteristiche di innovazione e di sostenibilità degli investimenti sottesi.
C’è una ragione fondamentale che unifica la strategia ambientalistica di Davos: siamo in presenza di un sovrappiù di capacità produttiva istallata ed ad una stasi generalizzata degli investimenti: si comprano le aziende marginali solo per chiuderne gli impianti, come è evidente nel caso della siderurgia. Anche il settore delle auto è ingolfato, e la creazione di gruppi sempre più grandi serve solo a mettere in comune gli investimenti in innovazione.
Dopo il passaggio dall’agricoltura all’industria, e da questa ai servizi, ora c’è solo la prospettiva di un aumento della disoccupazione tecnologica.
Detto con parole che erano di moda in altri tempi, a Davos si prefigura un “nuovo modello di sviluppo”, ma a condizione di mantenere in vita il modello capitalistico di produzione e di ridurre i rischi di una nuova crisi per il sistema finanziario. Così facendo, la instabilità sistemica non deriverebbe più dagli squilibri commerciali sull’estero o dalle ricorrenti bolle dei debiti e dei valori mobiliari o immobiliari, come è accaduto finora.
Senza avere il coraggio di affermarlo, è la fiducia nelle politiche monetarie ad essersi ormai azzerata, mentre ovviamente si continua a diffidare delle tradizionali manovre keynesiane. Serve una nuova politica dell’offerta, imposta a livello globale.
Invece di ridurre gli squilibri internazionali attuali, e di scongiurare i rischi legati alle varie bolle, si cerca una alternativa al paradigma della moltiplicazione dei consumi. La loro complicazione, stavolta, passa dalla creazione di un nuovo driver, la crescita fondata sulla sostenibilità ambientale.
Mentre Donald Trump, cerca assai brutalmente di mettere ordine al mondo attuale, a sfidarlo, a Davos, sarà Greta Thunberg. È un’icona senza identità politica e senza passato, cui si accodano i veri facitori del racconto, col marketing di un mondo tutto nuovo, bello e possibile: “Son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”.
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