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L’Amministrazione Trump rinnova le pesanti minacce all’Iraq qualora Baghdad pretendesse di attuare davvero il ritiro delle truppe statunitensi e della Coalizione dal Paese mediorientale.
Oltre a ventilare lo stop agli aiuti militari, ai pezzi di ricambio dei mezzi veduti alle forze irachene (secondo il Wall Street Journal i tagli immediati sarebbero per 250 milioni di dollari di fondi già approvati dal Congresso) e richieste di risarcimento colossali per gli investimenti nelle basi Usa in Iraq, ora Washington minaccia di congelare i conti correnti aperti in banche americane, dove finiscono gli introiti dal petrolio.
Lo ha rivelato il Wall Street Journal citando funzionari anonimi del Dipartimento di stato americano. In particolare, Washington priverebbe Baghdad di miliardi di dollari depositati alla Federal Reserve Bank di New York. In tal caso Baghdad non sarebbe in grado di ritirare fondi, il che potrebbe portare alla paralisi dell’economia locale.
Un vero e proprio ricatto senza precedenti. Secondo il Wsj un funzionario americano ha informato il premier iracheno a interim, Adel Abdul Mahdi, con una telefonata, mercoledì scorso, della nuova punizione e del danno che ne deriverebbe.
La Federal Reserve Bank di New York fornisce servizi bancari a circa 250 banche centrali e istituzioni governative di tutto il mondo e già nel 2015 aveva bloccato per diverse settimane un conto corrente del governo iracheno in seguito ad alcuni sospetti versamenti a banche iraniane e ad ambienti vicini all’Isis. Non è chiaro a quanto ammontino al momento i fiondi iracheni depositati alla Fed di New York, ma il Wsj aveva documentato che a fine 2018 il saldo era di 3 miliardi di dollari.
Il 10 gennaio il premier iracheno Adel Abdel Mahdi aveva fatto esplicita richiesta agli Usa di inviare una delegazione in Iraq per preparare il ritiro delle truppe statunitensi dal Paese, come da mozione approvata dal parlamento il 5 gennaio in seguito al raid americano che all’aeroporto di Baghdad uccise il generale iraniano Qassem Suleimani e 9 cittadini iracheni.
Media panarabi hanno citato una nota dell’ufficio del premier iracheno. Abdel Mahdi ha parlato telefonicamente il 9 gennaio con il segretario di Stato americano Mike Pompeo chiedendo che venga mandata una delegazione governativa americana in Iraq per “fissare i meccanismi che rendano effettiva la decisione del parlamento iracheno di far ritirare le truppe straniere” dal Paese.
In Iraq sono presenti 5.200 militari statunitensi e alcune migliaia di militari della Coalizione anti-Isis (900 italiani) a cui Baghdad impone ora di fare le valigie.
L’atteggiamento intimidatorio e ricattatorio assunto da Washington desta preoccupazioni per i rapporti sempre più tesi che gli Usa riescono ad instaurare con gli alleati. Possibile che l’Amministrazione Trump ritenga di poter violare la sovranità irachena e umiliarne la leadership come ha fatto con l’omicidio Suleimani senza che questo comporti reazioni più che legittime?
Possibile che gli Stati Uniti pensino di poter imporre diktat a nemici ed alleati senza alcuna considerazione delle diverse sensibilità e del diritto internazionale? Se i militari americani non sono più graditi ma restano in Iraq contro il volere del governo di Baghdad diventano forze d’occupazione, non alleati.
“Le istruzioni che ho ricevuto dal segretario alla Difesa e dal Presidente sono che noi rimaniamo in Iraq”, ha detto il 13 gennaio a Bruxelles il generale Mark Milley, capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi, intervenendo al Comitato Militare della NATO.
In un contesto simile è facile immaginare quali ostilità incontrerebbero in Iraq le forze americane e della Coalizione se dovessero restarvi col ricatto.
L’unico segnale distensivo tra Washington e Baghdad è stato, il 15 gennaio, la notizia che gli Stati Uniti hanno ripreso le operazioni militari congiunte con l’Iraq, sospese dopo il raid Usa che il 5 gennaio ha ucciso il generale Soleimani a Baghdad. Due funzionari militari statunitensi citati dal New York Times hanno affermato che il Pentagono ha voluto riprendere tali operazioni al fine di far ripartire la lotta contro l’Isis.
In ogni caso la rabbiosa reazione degli USA all’invito di Baghdad a ritirare le truppe dal paese conferma quale pericoloso precedente sia stato creato sotto diversi aspetti con l’uccisione del generale Soleimani. Innanzitutto un atto che per Trump è stato un clamoroso doppio autogol:
- sul piano internazionale puntava a rompere l’alleanza tra Baghdad e Teheran, invece ha ottenuto l’effetto opposto, con il governo iracheno che non vuole più le truppe americane entro i suoi confini;
- sul fronte interno è apparsa a tutti ben poco convincente la giustificazione che uccidere Soleimani è stato necessario perchè il generale dei pasdaran iraniani pianificava attacchi e attentati contro 4 ambasciate statunitensi.
Da oggi l’atteggiamento di Washington nei confronti della sovranità dell’Iraq potrebbe costituire un metro di valutazione per tutte le Nazioni che oggi ospitano forze militari statunitensi sul proprio territorio: un avvertimento per tutti specie ora che gli Stati Uniti vivono questa fase di “autoreferenzialità” internazionale.
Inoltre l’omicidio di Suleimani e di 9 cittadini iracheni uccisi con lui ha messo a rischio l’intera Coalizione impegnata in Iraq in missione di addestramento delle forze irachene impegnate contro l’Isis, compresi i soldati italiani.
A questo proposito il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha reso noto che le autorità di Baghdad hanno espresso apprezzamento per l’operato del contingente dell’Operazione Prima Parthica di cui Baghdad non vorrebbe il ritiro: i nostri militari hanno addestrato dal 2014 76.503 militari e agenti di polizia un quarto di quanto fatto dall’intera Coalizione.
Da un lato quindi il parlamento e il governo iracheno chiedono che statunitensi e la Coalizione da loro guidata lascino il paese, dall’altro la Difesa irachena vorrebbe che gli italiani restassero.
Da quanto ha detto il ministro Guerini, la soluzione sembra essere stata individuata in un maggior impegno della NATO in Iraq anche se è difficile immaginare che l’Alleanza abbia un ruolo di alto profilo in assenza del suo “maggiore azionista” americano.
Il contesto politico e militare non sembra rendere percorribile la trasformazione della Coalizione anti-Isis dell’operazione “Inherent Resolve” in Coalizione europea a guida Ue mentre ci sarebbe invece l’opportunità per trasformare la missione italiana in Iraq in bilaterale, staccandoci cioè da una Coalizione che gli Usa hanno snaturato (con l’omicidio del generale Suleimani e i raid contro le milizie sciite irachene) e che gli iracheni non vogliono più per stabilire una relazione militare diretta e autonoma col governo iracheno.
Un esempio che si potrebbe applicare anche in altri paesi e che darebbe per una volta la chiara idea che l’Italia è in grado di assumere e mantenere impegni autonomi al fianco dei paesi che considera alleati o fondamentali per i propri interessi. E di questi tempi non è necessario sottolineare quanto bisogno ci sia che Roma dia segnali di questo tipo.
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