di Nico Maccentelli
Mentre ero in fila, ho udito il commento di una signora che usciva dalla proiezione delle 17,20 di Sorry we missed you, l’ultimo film di Ken Loach:
“Se volete deprimervi”. In quel momento ho pensato quanto sia
impossibile far penetrare un barlume di coscienza sociale nelle teste
lobotomizzate dall’oblìo imperante della società dello spettacolo.
Ma poi, vedendo il film, mi sono depresso anch’io. Ken Loach ha ormai
conquistato la capacità di sintetizzare in una pellicola di cento
minuti i drammi familiari come diretta e inesorabile conseguenza
dell’oppressione semi-schiavistica del capitale sul lavoro. Tuttavia
siamo lontani dall’ironia sagace e soprattutto dalla soluzione seppur
paradossale che veniva data in opere come Riff raff e Piovono pietre,
dove andava a fuoco il cantiere. Il regista britannico rosso,
originario di Nuneaton nella contea del Warwickshire, prosegue la strada
di Io, Daniel Blake dove non c’è scampo, alcuna speranza per chi
entra nella macchina tritacarne privatizzata del sistema sanitario
inglese, così come racconta molto bene Sorry we missed you nel mondo del lavoro parcellizzato di Amazon e Zara,
degli hub della logistica dei tanti lumpen proletariat spacciati per
padroncini, in realtà completamente decontrattualizzati e sui quali
pendono costi, sanzioni, oneri nei rimpiazzi, rischi scaricati su di
loro da un apparato di comando sul lavoro spietato, dove la concorrenza
tra autotrasportatori è portata al parossismo.
In Sorry we missed you anche se hai ben presente (mosca rara
di questi tempi) cosa siano le vertenze della logistica nostrana, sei
portato a dirti: ma no, non è così. E invece è così, proprio così. E
questo è il grande merito di Loach, nel prendere per il bavero gli
spettatori e di fatto dire loro: hai visto cosa accade quando compri su
Amazon con Prime?
Il film procede in un’escalation senza vie d’uscita verso l’ecatombe
conclusiva, a loop, ma senza il colpo finale dell’infarto di Daniel
Blake. Un girone dantesco dal quale come in un quadro di Escher tutto si
ripete e non puoi uscire dal paradosso di una società “libera” che non
ti dà nulla: solo debiti, miseria e pisciate nelle bottiglie di plastica
per non sforare sui tempi di consegna.
Siamo lontani dall’operaio massa pupazzo di Chaplin perso tra gli ingranaggi industriali o imboccato da braccetti meccanici in Tempi moderni.
Così come siamo lontani dalla composizione di classe dei decenni
passati, dove la fabbrica comprendeva tutto il ciclo di produzione senza
frammentazioni delle sue fasi fino alla circolazione delle merci e in
subappalti, che così tanto hanno inciso sulla composizione di classe
stessa, nascondendola alla società, espiantando ogni automatica
acquisizione di una coscienza collettiva e di un’identità di classe.
Nell’opera di Ken Loach c’è tutto l’approdo del lungo percorso dagli anni ’80 iniziato con il tatcherismo,
con accenni persino espliciti nei dialoghi all’epoca della grande lotta
dei minatori, la cui sconfitta (ora lo sappiamo) ha aperto la strada a
un’era mondiale di ristrutturazione neoliberale dell’intero sistema
capitalistico.
Anche la coesione tra soggetti vista in Piovono pietre, nel
loro lavoro come nella loro vita dentro la periferia proletaria
britannica dimenticata dal mondo, in questo contesto non c’è e del resto
non può esserci neppure lontanamente: ognuno pensa al suo furgone, alla
pistola digitale che lo controlla step by step e alle consegne. Non c’è
altro, non si va oltre lo scatto d’ira individuale subito sedata dagli
autotrasportatori stessi, rassegnati e incapaci di pensiero critico. E
le conseguenze di un lavoro totalizzante, alienante, ricadono sulla
famiglia rendendo il protagonista Rick Turner e sua moglie,
operatrice socio-sanitaria sempre in giro per la città, del tutto
impotenti su problemi che dovrebbero richiedere la loro presenza per
avere una minima possibilità di soluzione.
In quest’ultimo Ken Loach non c’è però soluzione, nessun agit prop,
nessuna esortazione a reagire. In una narrazione che non dà speranze c’è
solo sottomissione e cronaca descrittiva senza sbavature ironiche. Solo
il prodotto culturale e comportamentale secco della distruzione
dell’identità sociale, di gruppo, di classe. L’inerzia.
Lo stesso Malony, lo spietato kapò del terminal logistico che
fa da scenario al destino di Rick, è il decisore incontrastato di ogni
destino individuale in una sorta di personificazione dell’assolutismo
capitalista subappaltato agli aguzzini.
In definitiva, è forse questo l’aspetto negativo delle ultime
pellicole di Loach: la pura denuncia senza vie d’uscite reali o
surreali, la sola proclamazione dell’esistente, l’ammissione della
sconfitta epocale, considerando questo piccolo atto disvelante di
rivolta intellettuale come sufficiente ad assolvere la propria missione
riformatrice o rivoluzionaria che sia.
Ma non lo è.
Ci si poteva aspettare di meglio dalla costruzione dei personaggi,
lavorare per individuare in loro una forza potenziale di esseri umani e
sociali capaci di reazione, la fiammella anche fioca di una dimensione
politica nel senso di partecipazione anche solo embrionale e
inconsapevole alla polis, la coscienza di un’identità perduta e
di un esodo da compiere verso nuove forme di identità collettiva e di
comunità solidale. Ma Rick, con le ferite sul corpo e nell’animo, torna
al lavoro.
Se volete deprimervi...
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