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04/06/2020

USA - Un immenso campo di battaglia


“L’opzione di utilizzare le forze di servizio attivo in un ruolo di contrasto dovrebbe essere usata solo come ultima risorsa e solo nelle situazioni più urgenti e terribili. Non siamo in una di quelle situazioni adesso”, ha dichiarato Mark Esper, il Segretario alla Difesa statunitense, di fatto contraddicendo le precedenti affermazioni di Trump che ha minacciato l’uso dell’esercito per contenere le rivollte in atto negli USA.

La possibilità di usare le forze armate gli sarebbe concessa da una legge del 1807, promulgata dal terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, contro la “presunta” cospirazione ordita dall’ex vice-presidente Aaron Burr.

L’insurrection act venne utilizzato con tale funzione l’ultima volta durante la rivolta di Los Angeles, nel 1992. Durante questa sommossa morirono più di 60 persone, mentre in un più ampio arco di tempo – anche 6 mesi dopo la sua fine – vennero arrestate 12 mila persone.

Le dichiarazioni di Esper sono un segno evidente di come anche l’attuale establishment sia spaccato su quale siano le decisioni da prendere, dopo che il coprifuoco promulgato in oltre 100 città e l’uso della Guardia Nazionale in 26 Stati non sembrano avere fermato le proteste.

Se gli esponenti del partito democratico hanno criticato i propositi di Trump, bisogna comunque ricordare che i suoi eletti locali non hanno esitato a ricorrere al coprifuoco, a chiedere l’aiuto della National Guard e a legittimare l’operato violento delle forze dell’ordine.

È chiaro anche che il clima di “esasperazione” promosso da Trump non rende certo più agevole il compito alla polizia, anzi la espone alle ritorsioni dei manifestanti.

Gli episodi molto “mediatizzati” di presunta fraternizzazione tra poliziotti e manifestanti sono un escamotage per coprire la realtà e rientrano nell’abusato giochino del “bad cop, good cop”.

Nelle “città gemelle” del Minnesota – cioè Minneapolis e St. Paul – a New York, Los Angeles, San Francisco, Phoenix, Atlanta e altrove, le proteste sono state “pacifiche”, mentre in altre incluse Portland, Oregon, Tampa e St. Peterburg, in Florida, la folla è stata dispersa solo con la forza, riporta il “The Guardian”.

Non è superfluo ricordare che le tattiche ed i mezzi usati per “controllare” la folla sono mutuate dalle modalità operative belliche, e che questa tipologia di formazione viene in genere impartita da Israele.

Pochi giorni fa il canale di informazione indipendente “Telesur” riportava la circostanziata denuncia della sezione statunitense di “Amnesty International”: “Il gruppo per i diritti umani ha riferito che centinaia di funzionari delle forze dell’ordine di Baltimora, Florida, New Jersey, Pennsylvania, California, Arizona, Connecticut, New York, Massachusetts, Carolina del Nord, Georgia, Washington e la polizia del DC Capitol si sono recati in Israele per formazione, mentre migliaia di altri hanno ricevuto formazione da funzionari israeliani negli Stati Uniti”.

Amnesty conclude che: “I dipartimenti di polizia (negli Stati Uniti) dovrebbero trovare partner che si allenano sulle tecniche di de-escalation, (…) e su come rispondere in modo appropriato a coloro che usano proteste non violente per esprimere le proprie opinioni. Israele non è un tale partner”.

Emerge sempre più spesso che i giornalisti e gli avvocati sono diventati veri e propri “bersagli” della polizia durante le proteste. C’è da chiedersi, in maniera un poco provocatoria, cosa sarebbe successo se un tale trattamento fosse stato riservato ai professionisti dell’informazione ed alle figure preposte alla tutela dei manifestanti in un altro Stato, considerato l’enfasi che solitamente viene data a tali comportamenti.

Un articolo di Alex Nicoli per l’“Insider” stila un elenco dei giornalisti che sono stati fatti bersaglio dalle forze dell’ordine. Alcuni, come Linda Torado, hanno perso la vista ad un occhio, altri – anche di testate importanti (LA Times, CBS, MSNBC, CNN ecc.) – sono stati fatti oggetto di diversi atti repressivi.

Di certo gli attacchi alla stampa quotidianamente portati da Donald Trump non devono aver giovato nell’esercizio della professione.

Il sito web di giornalismo investigativo “Bellingcat” ha finora svolto una dettagliata indagine su questo aspetto. Ecco come questa circostanziata denuncia giornalistica viene introdotta:

“Bellingcat ha identificato e raccolto numerosi casi di forze dell’ordine statunitensi che hanno preso di mira deliberatamente i giornalisti durante le proteste contro l’uccisione di George Floyd. L’arresto di un equipaggio della CNN a Minneapolis durante la trasmissione in diretta, il 29 maggio, è stato un evento scioccante, soprattutto in un paese con così forti protezioni sulla libertà di parola. Tuttavia, al momento della stesura di questo documento [pubblicato il 31 maggio, NdA], abbiamo identificato almeno 50 episodi separati in cui i giornalisti sono stati attaccati dalle forze dell’ordine. In questi esempi i giornalisti sono stati colpiti con proiettili di gomma, con granate stordenti, lacrimogeni, attaccati fisicamente, irrorati con gas urticante e arrestati. Sebbene in alcuni incidenti sia possibile che i giornalisti siano stati colpiti accidentalmente, nella maggior parte dei casi abbiamo registrato che i giornalisti erano chiaramente identificabili come stampa ed è chiaro che sono stati deliberatamente presi di mira. Questo modello di violenza contro i giornalisti si è replicato in diverse città, ma appare più intenso a Minneapolis.”

E sulla città è uscita un’interessante inchiesta del “New York Times” che mostra il razzismo sistematico con cui agiscono le forze di polizia e la loro sostanziale impunità, prima che l’attuale ondata di proteste per la morte, lunedì scorso, di George Floyd non facesse emergere questo aspetto non secondario della american way of life.

Un quinto della città del Minnesota è a maggioranza afroamericana – contro una media nazionale del 13% – e qui costituiscono il 60% delle persone fatte oggetto di “uso della forza” da parte della polizia, stando ai loro stessi dati.

Su 11.500 casi, dal 2015 ad oggi, ben 6.650 hanno riguardato afroamericani.

L’impunità promossa dai “sindacati” di polizia e causata dal sistema giudiziario è eclatante.

Su 2.600 casi di esposti contro il comportamento della polizia, solo una dozzina – riguardanti quindici agenti – è stati sanzionato.

La sanzione più pesante è stata la sospensione della paga per 40 ore!

È chiaro che tale sostanziale impunità non può promuovere un atteggiamento “virtuoso” della polizia...

Ma questo non che è un particolare, per quanto rilevante, di una condizione complessiva di vulnerabilità, o per dirla con David Schultz dell’università di St.Paul, “rispecchia solamente la disparità in molti altri aspetti in cui risulta pessima”, riferendosi alla città di Minneapolis.

Potremmo dire una pessima condizione, ma non proprio isolata.

L’esposizione più lucida di cosa siano gli Stati Uniti l’ha data Cornell West in uno dei rari interventi “radicali” apparsi sui media mainstream – in questo caso l’emittente televisiva CNN – “stiamo assistendo al fallimento dell’America come esperimento sociale”, ha detto questo storico attivista ed intellettuale organico, “ma dobbiamo lottare”.

Incapace di esercitare un’egemonia all’interno come all’esterno dei suoi confini, gli Stati Uniti conoscono una crisi allo stesso tempo economica, politica e sociale aggravata dalle conseguenze della pandemia.

Come cantavano i Last Poets: “Understand the beginning to be the end and nothing is in between”.

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