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07/07/2020

Il disastro dell’Europa e della “classe dirigente”

Odiamo dire che “l’avevamo detto”, però è andata proprio così...

Stamattina la Commissione Europea ha comunicato le nuove stime sulla situazione economica di tutta l’area, rivelando l’entità di un disastro molto più consistente di quanto previsto solo due mesi fa: -8,7%.

Nell’eurozona i Paesi che pagano un prezzo minore dovrebbero essere Lussemburgo e Malta, che comunque sono visti in calo rispettivamente del 6,2% e del 6%. Tra i Paesi principali, invece, la Germania è attesa in calo del 6,3%, la Francia del 10,6%, la Spagna del 10,9%, la Polonia del 4,6%, la Romania del 6%.

Ultima della classifica proprio l’Italia, che dovrebbe registrare un crollo del Pil dell’11,2% (assai peggio del -8,5% scritto nelle stime del 6 maggio), per poi rimbalzare – forse – del 6,1% nel 2021. Crolli e riprese, in statistica, hanno pesi assai diversi, se calcolati in percentuale, e dunque la “ripresa” dell’anno prossimo coprirebbe in termini assoluti solo il 5% circa della perdita attualmente in atto.

Tutto ciò, naturalmente, solo se non ci sarà una “seconda ondata” del Covid-19 in autunno, cosa che appare al momento più uno scongiuro che una previsione scientifica. In tutta Europa, infatti, la riapertura delle attività è stata accompagnata – irresponsabilmente – da una comunicazione ufficiale (più del sistema mediatico in mano alle grandi imprese che non agli organi statuali, in media più prudenti).

La stessa Commissione Europea mette in evidenza che le differenze – anche nella caduta del Pil – dipendono dalle diverse specializzazioni produttive dei diversi Paesi membri, anche se non approfondisce. Dombrovskis e Gentiloni (rispettivamente vicepresidente e Commissario agli affari economici) segnalano infatti come probabile che la produzione industriale prenda il ritmo più rapidamente, mentre il turismo e molti altri servizi ai consumatori sono destinati a riprendersi più lentamente, attenuando così il rimbalzo della domanda.

E questo spiega la pessima previsione relativa all’Italia, trascinata a forza negli ultimi decenni – grazie anche alle politiche di austerità dell’Unione Europea – verso un modello industriale fortemente impoverito dalla privatizzazioni (lo “spezzatino” è risultato agli occhi degli acquirenti più vantaggioso dello sviluppo produttivo), dipendente dalle interconnessioni subordinate alle filiere tedesche ed esageratamente orientato a fare della “vocazione turistica” il principale driver dell’economia nazionale.

Il Covid-19 e la sua sciagurata gestione – fortemente imposta dalle imprese medio grandi del Nord, segnatamente lombarde – hanno fatto implodere questo modello, visto che proprio il turismo e le attività collegate (ristorazione, pub, musei, discoteche, concerti, ecc.) fanno dei grandi “assembramenti” di persone la condizione minima essenziale per fare business.

In definitiva, in cosa avevamo ragione?
“Qui si è invece cercato, stolidamente e fin dall’inizio, di ‘contemperare’ le esigenze sanitarie (chiusura drastica di alcune zone) con la priorità considerata assoluta: continuare a produrre, a qualsiasi costo. […]

Il risultato è facilmente prevedibile: il virus arriverà ovunque, magari un po’ più lentamente grazie allo stop alle manifestazioni pubbliche della movida [...], e anche il Pil subirà egualmente colpi durissimi.

Chi ha voluto la botte piena e la moglie ubriaca resterà quindi dolorosamente deluso dal calo del Pil. Ma il prezzo del dolore, in massima parte, sarà sulle spalle della popolazione che lavora, tra periodi di malattia, quarantene, ricoveri, morti, perdite di salario o anche del posto.”
Era l’11 marzo. Non si era voluta fare “zona rossa” in Val Seriana e altri “cuori produttivi” della Lombardia, riuscendo così a “centrare l’obbiettivo” – davvero poco invidiale – di sommare il massimo delle perdite umane con il massimo di perdite economiche.

Se ci eravamo arrivati anche noi, senza peraltro possedere né la massa né la qualità di dati in mano a chi governa, non doveva essere poi così difficile da capire...

Non è solo ora di cambiare classe dirigente (sia politica che, soprattutto, industriale), ma proprio di cambiare sistema.

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