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12/07/2020

Le lotte dei nativi nella crisi USA

“Non è solo un luogo, è la nostra casa”.

Acqua è vita

Così recitavano gli striscioni – Mni wiconi, in lingua Lakota – negli accampamenti della resistenza contro la costruzione della DAPL, sorti alla confluenza del fiume Cannonball e Missouri nel 2016.

La DAPL è un acronimo che sta per Dakota Access Pipeline, la conduttura per il trasporto di petrolio di scisto. I “water protector” giunti da tutti gli Stati Uniti, composti principalmente da membri di più di 200 tribù di nativi, l’avevano ribattezzato “serpente nero”.

La DAPL è un progetto di 1.168 miglia (quasi 1.900 km) in grado di trasportare più di mezzo milione di barili di fracked oil al giorno – 570.000 per l’esattezza come riporta la Reuters – dai campi petroliferi di Bakken, nel Nord Dakota, attraverso il Sud Dakota, l’Iowa fino all’Illinois, pronto per le raffinerie del Golfo del Messico.

Una minaccia per le fonti idriche dalle quali dipende la Tribù Sioux di Standing Rock, insieme a 17 milioni di persone nei dintorni del fiume.

Un simbolo dell’aspirazione nord-americana a tornare ad essere il primo produttore al mondo di greggio grazie all’estrazione – estremamente impattante sull'ambiente e assai costosa – del petrolio da scisto.

Le immagini della resistenza dei nativi americani fecero allora il giro del mondo grazie alle riprese, divenute virali, delle violenze della milizia privata ingaggiata dalla compagnia, girate dal canale nord-americano di informazione indipendente Democracy Now! – sul campo da inizio settembre 2016 – generando 12 milioni di visualizzazioni nelle prime 24 ore.

Particolarmente impattante fu il fatto che le milizie private usassero i cani scagliandoli contro i “water protector”, cospargendo la bocca ed il naso degli animali di sangue, come se i dimostranti fossero selvaggina da caccia!

L’allora presidente Obama, alla fine del suo secondo mandato, ordinò lo stop al progetto, ma nel gennaio del 2017 il neo presidente Trump, eletto da pochi mesi, diede di nuovo il via libera al completamento dell'oleodotto.

Si trattava di un grosso regalo al miliardario Kelcy Warren, Ceo di Energy Transfer, che possiede DAPL, sostenitore dell’allora outsider repubblicano nella sua corsa alla Casa Bianca.

Dall’estate del 2017 l'oleodotto ha pompato petrolio fino alla scorsa settimana, il 6 luglio, quando un giudice federale ha ordinato di chiudere la conduttura e di “svuotarla” entro il 5 agosto. Una vittoria storica per la tribù, che Energy Transfer sta però cercando di by-passare.

Il portavoce dell’azienda basata a Dallas ha dichiarato a Bloomberg: “crediamo che il giudice James E. Boasberg abbia oltrepassato le sue competenze e che non abbia i poteri giuridici per fermare la conduttura e bloccare il flusso di greggio”.

Questa sentenza si basa su una legge di tutela ambientale del 1970, chiamata NEPA (National Enviromental Policy Act), per cui ogni progetto di grandi dimensioni necessita di un permesso federale che includa uno studio pubblico di impatto ambientale, che Trump cerca di aggirare.

Il Corps ha ignorato gli avvertimenti sui rischi ambientali e si era “rifiutato di condividere documenti tecnici chiave con noi o di confrontarsi con i nostri esperti tecnici”, scriveva Mark Faith – presidente della Standing Rock Sioux Tribe – sul The Guardian il 15 novembre scorso.

Addirittura le aziende proprietarie avevano fatto richiesta per raddoppiarne la capacità di trasporto a 1 milione e 100 mila barili al giorno, aumentando il rischio di perdite e fuoriuscite.

Ci sono voluti tre anni prima della decisione del giudice distrettuale James E. Boasberg, che ha costretto la Army Corps of Egineers a chiudere e a svuotare l’impianto fino a che non sarà pronta una EIS, cioè una analisi di impatto ambientale, per cui secondo il Corps stima sarebbero necessari 13 mesi.

Recentemente tre candidati alle primarie democratiche – E.Warren, B.Sanders e K.Harris – avevano promesso che avrebbero revocato il permesso se eletti. Biden non ha invece commentato la notizia.

Donna Brave Bull Allard, storica esponente della Tribù e la prima ad ospitare nella sua proprietà un campo di resistenza, dopo la vittoria giuridica ha dichiarato: “Abbiamo bisogno, come popolazione nativa, di non essere invisibili nella nostra terra”.

La crisi petrolifera e le possibilità di transizione ecologica

Quella di questa settimana non è stata l’unica vittoria dei nativi americani, in lotta per un futuro eco-sostenibile contro una conduttura petrolifera. Duke and Dominion Energy hanno annunciato di rinunciare ai piani di costruzione della Atlantic Coast Pipeline, una conduttura di 600 miglia (poco meno di 1000 km) del costo stimato di 8 milioni di dollari, ideata per trasportare il gas di scisto dalla West Virginia alla Carolina del Nord. Le compagnie si sono lamentate del possibile levitare dei costi di almeno 3 miliardi di dollari, dovuti ai contenziosi legali e dal doversi confrontare con continue proteste.

La lotta contro questo progetto è iniziata nel 2014 e nel suo percorso ha impattato la comunità afro-americana di Union Hill, fondata da schiavi liberati in Virginia dopo la guerra civile americana (1860-65), e di Robeson County, in Carolina del Nord, terra natale della Tribù Lumbee.

Donna Chavis storica attivista nativo-americana, ha dichiarato che le ragioni del successo dell’iniziativa di lotta risiedono “nell’aver lavorato lungo il percorso della pipe-line (…) attraversando le linee di razza e classe, e mettendo insieme le comunità afro-americane e quelle indigene”.

Un altro aspetto importante è stato l’azzeramento della narrazione con cui le aziende portavano avanti il progetto cercando di guadagnare il consenso locale facendo leva sulla riduzione del costo del gas e la creazione di posti di lavoro.

Così spiega Lyndsey Gilpin, fondatrice e capo-redattrice di Southerly, un media che tratta di ecologia, giustizia e cultura nel Sud:

“Dall’inizio questo progetto ha trovato l’opposizione di molte più persone di quante tipicamente si sarebbero mobilitate nel passato, perché hanno visto come l’industria del carbone ha decimato queste comunità, come abbia costituito le sue fortune sulle spalle delle comunità dei monti appalachiani e poi li abbia abbandonati (...) con alti tassi di disoccupazione. Ha lasciato le persone ammalate a morire per malattie legate all’inquinamento.”

Un chiaro esempio di unione degli oppressi, o di “intersezionalità”, utilizzando un termine più congruo alle nuove sensibilità politiche.

Come per Standing Rock, anche per questa battaglia i margini di riuscita dell’azione sono incrementati anche a seguito del mutato contesto globale del mercato petrolifero e per la crisi del sistema nord-americano.

Le conseguenze economiche della pandemia hanno annichilito le speranze del dominio statunitense nel mercato mondiale del petrolio attraverso il fracking, una tecnica di estrazione che comporta un costo di produzione sostenibile solo attraverso un continuo e massiccio indebitamento da parte delle aziende e quindi, negli Stati Uniti, attraverso le costanti iniezioni di liquidità nei mercati finanziari.

In questo contesto queste lotte possono dare il colpo di grazia alla distopia “estrattivista” del fracking ed aprire la prospettiva di una reale transizione ecologica che ponga rimedio al catastrofico cambiamento climatico.

Come hanno scritto nel loro editoriale per Democracy Now Amy Goodman e Denis Moynihan: “Ci sono più di 200.000 miglia di pipeline petrolifere funzionanti negli USA, e campagne in corso contro la costruzione di progetti come Keystone XL, Enbridge Line 3 nel Minnesota nel Nord e la Coastal GasLink pipeline in British Columbia”. I nativi americani sono le comunità più impattate con un sempre più ampio fronte di lotta che si unisce alle proteste.

Una lotta che sembrava finora impari, ma i “rapporti di forza” stanno cambiando. Ai festeggiamenti di coloro che hanno condotto le lotte si sono contrapposti i commenti dell’establishment repubblicano, tra cui il segretario all’Energia Dan Brouillette ed il senatore del Nord Dakota Kevin Cramer, vicino a Trump, e delle lobby dell’energia, come l’American Petroleum Institute e l’Association of Oil Pipe Lines (AOPL).

Naturalmente gli spettri della perdita sia di posti di lavoro sia dell’autonomia energetica sono stati agitati dal business dell’energia per costruire una narrazione conforme ai propri interessi, ma i cali di produzione erano precedenti e legati alle dinamiche complessive dei mercati.

Anche gli investitori potrebbero ricavare conseguenze negative a causa dell’effetto domino dello stop – le azioni di Energy Transfer sono scese dell’8%, lo scorso lunedì – scomvolgendo il castello di carta di quella parte della finanza USA collegato al petrolio ed al gas di scisto.

Ancora di più, oggi, puntare sullo scisto sembra essere stata una scommessa piuttosto azzardata compiuta da alcuni pezzi importanti dell’establishment, che rischiano ora di uscirne con le ossa rotte.

Trump non è il benvenuto

Ma un’altra decisione “storica” completa la settimana di vittorie per i nativi americani.

La Corte Suprema giovedì ha stabilito che la parte orientale dello Stato dell’Oklahoma è sotto la sovranità giuridica della riserva nativo-americana, rifacendosi ai trattati per cui diverse nazioni “indiane” sono state riallocate – dopo l’ espulsione forzata dai loro territori d’origine – nel nascente Stato del Sud.

Una decisione di 5 giudici contro 4 che, senza rivoluzionare il regime di proprietà della terra posseduta dai “non nativi”, potrebbe cambiare radicalmente il sistema giudiziario anche nella seconda città dello Stato, Tulsa.

La studiosa ed attivista nativo-americana Sarah Deer, anche avvocatessa, l’ha definita “una caso spartiacque, e probabilmente il più importante caso giudiziario indiano da cinquant’anni a questa parte”.

Questa esponente della Nazione Muscogee che insegna all’università del Kansas ha affermato che “il linguaggio della decisione va esso stesso molto oltre l’Oklahoma”.

Il caso in particolare, per cui è stato stabilito che non può esprimersi una Corte Statale, riguarda il territorio della riserva dato alla Nazione Muscogee (Creek), nella parte centro-orientale dello Stato. Una delle cinque “nazioni indiane” deportate nello Stato insieme a Cherokee, Seminole, Chickasaw, Choctaw.

Circa centomila nativi americani furono espulsi dalle loro terre ancestrali, come i Muscogee, che dalla Georgia e dall’Alabama durante gli anni trenta del 1800 vennero “deportati” in Oklahoma, per far posto alle piantagioni che prosperarono grazie al regime schiavista.

I nativi americani sono stati colpiti duramente dal contagio e dalle morti per Covid-19, e le loro risorse economiche minate dalla chiusura dei casinò, ma le mobilitazioni nazionali successive alla morte di George Floyd hanno dato nuovo slancio al movimento nativo-americano, catturando l’attenzione mondiale con il blocco delle strade attorno al Mount Rushmore durante la visita di Donald Trump per il 4 luglio.

Le proteste hanno portato all’arresto di 15 persone.

Il monte è uno dei siti storici sacri deturpato dalla sculture delle facce di quattro presidenti statunitensi (Washington, Jefferson, Lincoln e T.Roosevelt) – fatte costruire tra il 1927 al 1941 tra l’altro da un simpatizzante del KKK Gutzon Burglum – sulla terra sacra dei Lakota. Più di 50 nazioni “indiane” hanno storie correlate alle Black Hills.

Una decisione della Corte Suprema nel 1980 aveva tra l’altro disposto una “compensazione monetaria” per la sottrazione illegale del sito ai Dakota, ma era stata rifiutata dalle tribù.

Si tratta del trattato di Fort Laramie, del 1868.

I nativi hanno voluto ribadire la loro sovranità sulle loro terre ancestrali e dire a Trump che nessuno l’aveva invitato.

Il Presidente della Oglala Sioux Tribe aveva “ordinato” a Trump di cancellare l’evento di venerdì.

Il Monte Rushmore, He Sápa per i Lakota, è divenuto negli ultimi anni il simbolo dell’emergere dei valori culturali del suprematismo bianco di cui Trump si è fatto portatore. Tutti i presidenti raffigurati sono stati in diverso modo e misura ostili ai nativi americani.

Come scriveva uno dei leader dell’American Indian Movement, Leonard Peltier, tutt’ora in carcere a 75 anni, con più di 40 anni di detenzione alle spalle – è il più anziano prigioniero politico negli USA – “il silenzio, dicono, è la voce della complicità. Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, così come fare nulla è un’azione”.

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